• 17 Maggio 2025
La mente, il corpo

“La Chiesa è più giovane dell’Italia e si interroga sul futuro. Noi guardiamo indietro.”

Questo è il titolo di un bellissimo articolo di Claudio Velardi, direttore del Riformista, che mi è venuto in mente girando per l’Italia dei piccoli borghi, bellissimi sotto il profilo turistico conservativo, ma pieni di tanti,troppi, anziani.

L’Italia, ce lo diciamo da tanti anni, non è un paese per giovani. Negli ultimi trent’anni tutte le poche politiche attivate dai governi non sono riuscite a dare risultati sufficienti per invertire tendenze nefande: denatalità, scarsa formazione scolastica in linea con il contesto europeo,suicidio della premialità meritocratica, pochissima occupazione inclusiva e tra le tante la mancanza di un orizzonte di opportunità ma anche di certezze sulla migliore qualità della vita e sul futuro dei giovani.

Con il risultato che si vuole includere tutti e tutto e si finisce per escludere ed emarginare le forze giovanili della società. Le uniche creative, sensibili, ardimentose, vogliose di migliorare e cambiare il mondo.

Ogni potenziale aquila, tarpate le ali diventa pollo da allevamento. Grasso, commestibile, sacrificabile.

Molta attenzione ai cosiddetti enti intermedi per affrontare problemi o addirittura risolverli, senza contare che gli stessi, sindacati, associazioni di categoria, lobby varie, etc., hanno interessi precisi e particolari che rispondono a logiche economiche e finanziarie non statali o di tutela della socialità non statale, se non asservite addirittura a lobby internazionali dell’alta finanza parassitarie o sfruttatrici.

Accade così che la politica diventa comunicazione, ruba la scena ai conduttori di condomini, pensando alla cronaca quotidiana scevra da alcuna etica ideologica o ideale. Chi governa elargisce al massimo sgravi fiscali o sussidi o condoni, ma nulla oltre la visione del proprio naso o del proprio partito. La risposta reale della società è la fuga dalla politica, sempre più asservita all’economia finanziaria ed al ricatto tecnologico.

E l’uomo resta solo. I giovani, già colpiti da quell’inadeguatezza di cui tanti parlano a ragione e con profondità (i Cacciari, i Crepet, i Galimberti), dopo la perdita identitaria della comunità familiare, sociale, nazionale, percepita come matrigna, decidono con grande coraggio di espatriare; andare all’estero, migrare verso opportunità nuove, facendo immani sacrifici per trovare un posto in Europa che sia all’altezza delle loro speranze.

Ed ecco le nostre città e paesi svuotati della migliore gioventù. Luoghi senza linfa abbandonati a chi fa affari con la senilità sociale, a chi delle recessioni ne trae vantaggi, a chi può governare tranquillo perché i vecchi, perdendo la saggezza, non metteranno mai in discussione un regime che li obnubila coi bonus, la sanità di prossimità e l’orizzonte di pensionati buttati sulle panchine delle ville comunali, magari con unica consolazione un gatto o un cane.

Una volta, pur in un’Italia più povera ma viva, alla vigilia di una enorme modernizzazione dello Stato, c’erano movimenti culturali, letterali che si battevano per la difesa identitaria dei loro luoghi e delle loro specificità. Mi riferisco a “Strapaese”, “cultura che si ispirò alle tradizioni schiettamente paesane, contro ogni forma di cosmopolitismo o esterofilia ”(Treccani) e “Stracittà”, tendenza ad aprirsi verso forme più moderne della cultura europea.

Della prima furono esponenti giovanissimi Papini, Soffici, Maccari, Longanesi, Malaparte, Bartolini, Bacchelli, etc. Della seconda spiccavano Bontempelli, Alvaro, Barilli, Emilio Cecchi, Joyce, etc.

I tempi sono cambiati, l’Italia è diversa, più grassa e ignobilmente ignorante. E i giovani, nuovi analfabeti in un mondo digitale e cosmopolita, cercano altrove terre e luoghi dove emigrare.

Si tratta di una emigrazione nuova e di non facile lettura.

Per capire occorre fare riferimento a studi di settore e di ricerca che snocciolano dati e percentuali di un fenomeno enorme ed immane, ma che i politici ignorano volutamente (non avendo un orizzonte ed una rotta, sono incapaci di intervenire) e i giornali riportano come una semplice cronaca quotidiana.

Facciamo riferimento a tre ricerche di settore:

– I risultati della ricerca “Nuove generazioni” Unipol Changes realizzata da Kkienn su un campione di Millennials e Generazione Z.

Negli ultimi 10 anni un milione di italiani si è trasferito all’estero, a fronte di 400 mila rientri, con un saldo migratorio negativo di 600 mila persone. Non succedeva da decenni: l’Italia è ritornata terra di emigrazione. Sarebbe però sbagliato leggere l’oggi con le lenti del passato: l’emigrazione attuale non è quella dei nostri nonni e nemmeno quella dei nostri padri. Pochi fatti per cogliere le differenze:

La metà degli emigrati sono giovani dai 18 ai 35 anni

· Un quarto è laureato

· Provengono da tutte le regioni del Paese, Lombardia in testa

· Non appartengono solo alle fasce più svantaggiate ma a tutti i gruppi sociali

Come interpretare allora quello che ci raccontano le statistiche? Cosa sta succedendo e perché?

Gli italiani sono un esercito di potenziali migranti.

Un primo aspetto da considerare è che trasferirsi all’estero è una possibilità alla portata dalla maggioranza dei giovani italiani: il 59% dichiara che, se avesse una buona opportunità, non esiterebbe a cambiare Paese.

Non è un’intenzione solo giovanile: la quota di adulti attratti dall’estero è solo leggermente inferiore (55%). E non è solo di chi vive in condizioni economiche difficili: la possibilità di trasferirsi è rivendicata al Nord (57%) come nel Centro-Sud del Paese (55%), fra i poveri (65%) come fra i ricchi (67%). Se avesse una buona opportunità il 60% dei giovani sarebbe disponibile a emigrare all’estero. La propensione ad emigrare è simile per i giovani ed i maturi.

Si parte anzitutto per guadagnare di più e avere più opportunità

I giovani italiani partono perché il mercato del lavoro da noi è povero: i salari e gli stipendi sono bassi (68%), ci sono poche opportunità (52%), i contratti di lavoro sono a termine, a tempo parziale, ecc. (46%). I giovani emigrano perché in Italia gli stipendi sono bassi, ci sono poche opportunità ed il lavoro è precario. All’opposto in Europa ci sono opportunità lavorative e buoni stipendi (80%), i giovani sono più considerati e apprezzati (79%) e il mercato, anche se forse meno florido che in passato, garantisce ovunque buone opportunità (68%). In questo scenario è facile prevedere che i flussi migratori dei giovani italiani verso l’Europa proseguiranno perlomeno fino a che il paese non tornerà a crescere ai ritmi degli altri Paesi.

Politici e sindacalisti inseguono un mondo che non c’è più

Piangere per la “fuga” dei cervelli (o dei migliori lavoratori) è inutile, soprattutto se non si colgono alcuni segnali che contraddicono gli ultimi decenni di politiche per il lavoro. Tra Jobs Act e articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, tra causali per le assunzioni e procedure barocche per l’apprendistato, i giovani italiani preferiscono la competizione. Vorrà dire qualcosa anche per chi vorrebbe rappresentarli? Sia le organizzazioni sindacali sia i partiti politici – o quello che ne resta – sembrano intenti a una battaglia di retroguardia, rivolta a garantire diritti (per pochi) senza pretendere doveri (per molti).

Ci culliamo spesso nella convinzione che la qualità della vita in Italia sia particolarmente buona. Ma il clima, la dieta mediterranea, i borghi d’arte e la cultura non bastano per trattenere i giovani connazionali. E questo costa al paese qualcosa come 4 miliardi all’anno, almeno nella media degli ultimi 13 anni. Nel biennio 2022-2023 questa “perdita” nel bilancio nazionale è stata anche più sensibile: circa 9 miliardi di saldo negativo. Eppure sembra che l’agenda dei nostri politici sia compilata “a prescindere”, come se non si trattasse di un allarme.

– I dati riportati dall’Aire-Anagrafe degli italiani all’estero.

Gli italiani residenti oltre confine da più di un anno superano i sei milioni. Sono scappati per trovare stipendi più alti e migliori opportunità di carriera. Nel decennio 2013-2022, la perdita complessiva di giovani laureati nella classe di età 25-34 anni a favore dell’estero ammonta nel Nord a circa 43mila unità, nel Centro è di circa 14mila unità, mentre nel Mezzogiorno è uguale a circa 30mila unità. Le uscite dal Mezzogiorno verso l’estero e verso le altre regioni d’Italia, invece, determinano una perdita complessiva di poco più di 168mila giovani residenti laureati.

Il caso Torino: I laureati scappano da Torino: ventimila giovani emigrati all’estero. Sono medici, ingegneri e specialisti It.

Stando gli ultimi dati Istat l’emorragia di cervelli under 40 dal capoluogo piemontese procede a ritmo serrato. Nel 2023 sono stati circa 7 mila i torinesi che hanno cambiato residenza traslocando all’estero: in Francia, Germania, Svizzera e anche Stati Uniti. Di questi più di 2.700 sono giovani laureati, dato record degli ultimi anni, dove la media degli addii a Torino ruotava intorno a 2 mila trasferimenti ogni dodici mesi. E infatti in dieci anni sono circa 20 mila i giovani laureati che hanno lasciato il territorio, su circa 80 mila cambi di residenze all’estero. Tante uscite, ma pochi ingressi. Certificando la fatica della città a essere attrattiva. Il saldo tra ingressi e uscite resta ancora in passivo. 

L’effetto della Legge sul «rientro dei cervelli», amplificata da generose agevolazioni fiscali, poi ridotte dal governo, c’è stato e ha portato negli ultimi anni al ritorno sul territorio di circa un migliaio di laureati. Non solo torinesi di ritorno. Ma la bilancia «commerciale dei talenti», resta in pesantemente in passivo. Il problema della fuga dei cervelli, non è solo torinese, perché interessa quasi l’8% dei laureati italiani. Dal 2011 al 2023, sono 550mila i giovani italiani di 18-34 anni emigrati all’estero.

– Il recente report di “Fondazione Nord Est”. 

Dal 2011 al 2023 oltre 550mila giovani hanno lasciato l’Italia: il 35% ha conseguito esclusivamente il diploma e il 30% non ha frequentato o concluso le scuole superiori. Dati importanti «perché gettano una luce diversa sulla fuga dei giovani italiani: non si tratta di un fenomeno elitario, bensì è popolare perché riguarda anche persone con origini familiari svantaggiate».

Proprio per esplorare le origini e le condizioni di partenza dei giovani expat italiani, sono state aggregate le informazioni sulla base delle caratteristiche socioeconomiche e culturali di partenza di chi ha partecipato al sondaggio. Sono emersi due profili: gli svantaggiati e gli avvantaggiati ribattezzabili rispettivamente in «emigrati per necessità» ed «emigrati per scelta». Quindi un quarto emigra per necessità ed il 23% per scelta. Le motivazioni: per necessità 26% per opportunità di lavoro; migliore qualità della vita 23%; per scelta 29% per opportunità di lavoro; 21% per studio. Il diverso background di provenienza influenza gli stessi sbocchi professionali degli expat: in particolare tra coloro che sono partiti contando su condizioni di vantaggio è più ampia la quota di chi svolge una professione intellettuale (23,1% rispetto a 4,9% di chi ha origini svantaggiate) o impiegatizia (40,2% rispetto al 30%). Viceversa, tra coloro che sono partiti per necessità è più significativa la percentuale di persone impiegate nei servizi (17,6% rispetto a 10,4%) e di quanti sono operai specializzati o semi-specializzati (21,6% rispetto a 2,6%) o hanno impieghi non qualificati (8,1% rispetto a zero).

Un po’ meno della metà di chi ha lasciato l’Italia per necessità svolge mansioni per cui le imprese italiane denunciano vacancy (tecnico, qualificato nei servizi, operaio specializzato, operaio semi specializzato, lavoratore non qualificato). In numeri assoluti si tratta di oltre 130mila giovani. La cui assenza ha un impatto diretto sulle condizioni operative delle aziende.

Questa l’amara realtà, in un contesto dove lo stato spende tutto per i garantiti, per sanità e pensioni alle spalle dei giovani; i genitori non hanno fiducia nella cultura e questo toglie potere ai figli. L’ultima generazione ha genitori che non contano sul sapere.

Leggendo Galimberti, Crepet e Veronesi si capisce quanto il dolore soffoca e bombarda i giovani. Fragili.. vivono la perdita identitaria, non avendo il riconoscimento dagli altri dei propri valori. Immersi in una ignoranza gravida vivono la condizione che Marcello Veneziani ha definito “senza eredi”, immersi in un mondo senza ideologia prima e senza idee dopo.

In pratica le ultime generazioni hanno perso la chiave interpretativa del mondo. E quelli a cui è rimasto il coraggio emigrano.

Ci salverà una maggiore presa di coscienza, un risolutivo investimento nella cultura del Paese, o a far conti solo economici qualcuno pensa che ci salveranno gli immigrati?

Questo si chiama declino ed a ciò non dovremmo rassegnarci.

E qui ritorna il senso dell’articolo di Velardi che, partendo da un’analisi tra mondo della Chiesa e l’Italia, conclude invitando ad affrontare i problemi ed a non chiuderci in una consolatoria nostalgia del passato.

“Per questo, se siamo tristi e sfiduciati, ci rifugiamo nella nostalgia. E quando questo meccanismo, naturale per l’individuo, diventa collettivo — se diventa stato d’animo di una nazione — il rischio è enorme. Il fatto storico si fa racconto, il racconto si fa mito. E il mito non si discute: si celebra. Il passato smette di insegnare e inizia a imprigionare. Si idealizza. Si cristallizza. Diventa uno strumento per consolidare appartenenze, dividere, al solo scopo di legittimare il presente. Una scorciatoia identitaria che evita di affrontare l’unico vero nodo: cosa vogliamo diventare. Qui sta il cuore del problema: se non guardiamo avanti, la memoria ci imprigiona. Ci impedisce di evolvere, perché ci tiene ancorati a un passato idealizzato, dunque falso. Solo la consapevolezza — la capacità di chiederci chi siamo oggi e dove vogliamo andare — ci permette di sfuggire a questa trappola. Solo un progetto sul domani ci rende liberi dagli inganni del ricordo. Ecco perché questo Paese ha bisogno di tornare a desiderare. Non di rimpiangere. Di progettare, non di commemorare. Di usare la storia per capire, non per consolidare certezze. Il ricordo non ci salverà. Ci salverà solo il desiderio. Il desiderio di rischiare, di inventare, di provare qualcosa che non è mai stato fatto prima. Non si tratta di cancellare il passato. Si tratta di rimetterlo al suo posto. È solo guardando avanti che possiamo dare un senso a ciò che abbiamo vissuto. È solo progettando il domani che possiamo evitare di restare prigionieri di ieri”.

Autore

Pugliese, cultura umanistica, politicamente nazionalpopolare. Già Ufficiale Superiore dell’Esercito, nei Granatieri. Fondatore dell’Ufficio Storico dello SMD e collaboratore della CISM (Commissione Italiana di Studi Militari) sino al 2014. Dal 1980 al 1991 ha ricoperto cariche elettive istituzionali. Dal 1980 al 1984 è stato collaboratore dell’Ing. Giovanni Volpe per la “Fondazione Gioacchino Volpe”. Dal 1978 sino al 2000 è stato collaboratore dell’On. Pino Rauti.Nel 1978, con Rutilio Sermonti è stato tra i fondatori dei “GRE” (Gruppi di Ricerca Ecologica) primissima associazione ambientalista in Italia. Fondatore della rivista “Officina – Le ragioni nazionalpopolari”, ne è stato coordinatore editoriale dal 2001 al 2005. Dal 2016 responsabile organizzativo del Think Tank “I nazionalpopolari”. Attualmente è editorialista del mensile “Informa”, organo dell’Ordine dei Giornalisti del Molise.