• 18 Novembre 2025
Geopolitica

Molti palestinesi sono stati usati come scudi umani. Ciò ha suscitato una forte ondata di indignazione e tanti dubbi morali. Secondo un’inchiesta di Associated Press, in diverse occasioni, alcuni civili palestinesi sarebbero stati costretti dai soldati israeliani a entrare per primi in edifici sospetti o tunnel durante le operazioni militari a Gaza, a scavare tra le macerie o ad attraversare cunicoli sotterranei per cercare trappole o combattenti nascosti. Questo li ha esposti a rischi enormi, in un contesto dove ormai la linea che separa i militari dai civili è sempre più sfumata.

Non è la prima volta che si parla di questo. Negli ultimi anni la questione è riaffiorata più volte, non solo grazie alle denunce raccolte tra la popolazione locale, ma anche per le testimonianze di ex soldati israeliani. Alcuni di loro, ormai fuori servizio, hanno raccontato sotto anonimato che questa pratica era conosciuta e, in certi casi, persino incoraggiata dai loro superiori sul campo. La cosa era così diffusa da avere addirittura il nome in codice di “mosquito protocol”.

Usare civili palestinesi come scudi umani è non solo una gravissima violazione del diritto internazionale, ma va anche contro le regole ufficiali delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), che vietano espressamente di coinvolgere i civili nelle operazioni militari contro la loro volontà. Eppure, l’inchiesta mostra che questa situazione si è verificata più volte.

Una delle testimonianze più toccanti è quella di Abu Hamadan, un uomo palestinese che racconta di essere stato separato dalla sua famiglia e tenuto prigioniero per più di due settimane. Durante quel periodo, sarebbe stato obbligato a compiere ispezioni forzate sotto la minaccia delle armi. Racconta di aver dovuto passare ore a cercare passaggi sotterranei o stanze nascoste, mentre i soldati restavano a distanza di sicurezza, pronti a intervenire solo dopo che lui aveva “spianato la strada”.

A preoccupare molti osservatori è anche il linguaggio usato dai militari per riferirsi a queste pratiche. Termini come “vespe” per indicare i civili palestinesi coinvolti e per la strategia di mandare avanti i non combattenti contribuiscono a una disumanizzazione che, secondo esperti in etica militare, mina le fondamenta stesse del diritto umanitario.

A lanciare l’allarme in Israele è anche l’organizzazione “Breaking the Silence”, fondata da ex militari israeliani. Il direttore del gruppo, Nadav Weiman, ha dichiarato che l’uso di civili nelle operazioni armate, sebbene ufficialmente condannato, continua a verificarsi sul campo. “Siamo i primi a denunciare Hamas per aver nascosto armamenti tra la popolazione civile, ma non possiamo chiudere gli occhi quando anche i nostri soldati agiscono con modalità simili”, ha detto, e ha sottolineato che ogni abuso, da qualunque parte provenga, resta un fallimento morale prima ancora che operativo.

Non si tratta, purtroppo, di episodi isolati. Già in passato la Corte Suprema israeliana era intervenuta sul tema. Nel 2002 aveva vietato ufficialmente la cosiddetta “procedura del vicino”, una tecnica con cui i soldati costringevano un civile palestinese a bussare alla porta di un altro sospetto per evitare imboscate. Ma, nonostante la sentenza, simili strategie sembrano essere tornate a galla.

Nel 2010, per esempio, due sergenti dell’IDF furono sanzionati per aver obbligato un bambino di nove anni ad aprire borse sospette durante un’operazione. Oggi, con il conflitto a Gaza che si protrae da oltre diciotto mesi, la tensione sul campo e la natura asimmetrica degli scontri urbani sembrano aver aperto la strada a metodi sempre più controversi, spesso giustificati con la necessità di proteggere le truppe.

Attualmente, le forze armate israeliane hanno confermato l’apertura di indagini formali attraverso la divisione investigativa della polizia militare. Tuttavia, non sono stati diffusi dettagli su eventuali imputazioni o provvedimenti. Questo silenzio alimenta dubbi sulla reale volontà di fare piena luce sulle responsabilità individuali e sistemiche.

La comunità internazionale osserva con attenzione, divisa tra la condanna delle violenze di Hamas e il crescente scetticismo verso alcune condotte delle forze israeliane. In questo scenario drammatico, a pagare il prezzo più alto restano, come sempre, i civili intrappolati nel mezzo.

Autore

si occupa di scrittura e analisi culturale con un approccio critico affinato attraverso studi in lingue, letteratura angloamericana e giapponese, e un Master in Editoria conclusosi con esperienza diretta in ambito redazionale presso la casa editrice Safarà Editore. Grande amante dei libri e dell'arte nelle sue varie espressioni, dedica particolare attenzione alle parole, poiché crede che possano trasformare e plasmare la realtà che ci circonda. Collabora con diverse testate dedicandosi principalmente ai tema ambientali, politici e ai diritti umani.