
Se c’è una cosa che non è mai mancata nella vita di Dacia Maraini sono i libri. Come apprendiamo da lei stessa, è cresciuta in una famiglia di scrittori, in un ambiente culturalmente avvincente: una nonna scrittrice, un padre autore di libri di viaggio e un filosofo. Ciononostante non le sono stati risparmiati eventi drammatici che hanno segnato la sua infanzia. Nel 1938, a soli due anni dalla nascita a Fiesole, la famiglia si trasferisce nel nord del Giappone. Fosco, il padre etnologo, appassionato di cultura orientale, aveva ottenuto una borsa di studio per le sue ricerche sull’etnia Ainu. Nel 1943, non avendo aderito alla Repubblica di Salò, i coniugi Maraini, Dacia e le due sorelle, vengono internati nel campo di concentramento di Nagoya. Due anni di orrori che lascianoun’impronta indelebile, come l’ossessione per il cibo, evidente in tante opere: «Il cibo era diventato un’ossessione, un incubo, il nostro mito quotidiano. Chi conosce i miei libri sa, infatti, che parlo spesso di cibo, mi soffermo sui dolci o sui primi piatti, con molta attenzione e sensualità». Nel 1946 finalmente rientrano in Italia ma di lì a breve le strade del padre e della madre, Topazia Alliata di Salaparuta, erede di una nobile famiglia siciliana, pittrice e appassionata d’arte, si separano. Raggiunta la maggiore età, Dacia si trasferisce a Roma, dove collabora con alcuni giornali epubblica il suo primo romanzo, La Vacanza. È solo l’inizio di una lunga e brillante carriera letteraria.
La scrittura si manifesta presto come una vocazione. A soli diciassette anni inizia a dedicarsi alla stesura di testi, spinta anche da una spiccata timidezza che la porta a preferire la scrittura alla parola. Lei stessa chiarisce: «Nel mio caso si è espressa, da piccola, in una difficoltà nel parlare, in una timidezza morbosa che mi ha fatto molto soffrire. Ma forse è stata proprio l’inadeguatezza a spingermi verso la scrittura. Mi trovavo, infatti, meglio a scrivere che non a parlare».
Romanziera, poetessa e drammaturga, è una delle autrici italiane più tradotte nel mondo. Il suo percorso, però, è stato tutt’altro che facile. A ventisei anni propone il primo romanzo a un editore (Lerici), il quale le garantisce la pubblicazione solo con la prefazione di uno scrittore importante. Lei la chiede (e ottiene) a un autore di fama mondiale: Alberto Moravia. Nonostante il successo, le prime opere della Maraini suscitano un certo scetticismo tra i critici. A nostro avviso, pagò lo scotto di essere la donna di Moravia. Infatti, l’autore de “Gli Indifferenti”, separatosi da Elsa Morante, visse con la Maraini una relazione durata oltre un ventennio. Pubblicamente umiliata con l’accusa di essere la protetta di Moravia, ha dovuto faticare duramente e solo dopo migliaia e migliaia di copie vendute è stata “riabilitata”. E, forse, ancora oggi la sua opera non è opportunamente approfondita.
Autrice versatile, si è cimentata in diversi generi. Mentre le sue prime opere si caratterizzano per una prosa asciutta, quasi essenziale, i lavori successivi si distinguono per uno stile più morbido e accattivante, elegante, coinvolgente ed emozionale.
La vena realistica e la denuncia di storture sociali sono il tratto distintivo della Maraini, scrittrice di denuncia, capace di affondare con forza la penna in temi delicati come la violenza su donne e minori, abusi edilizi, disuguaglianze sociali o il degrado ambientale. In tal modo ha conquistato un posto di rilievo nella stretta cerchia dell’intellighenzia italiana.
Denunciando ma anche auspicando il cambiamento, ha scritto opere di grande successo, che qui ripercorriamo in estrema sintesi.
Con Bagheria (1993) affronta problematiche cruciali come la mafia. La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), vincitore del premio Campiello, e Il treno dell’ultima notte sono romanzi che esplorano la complessità dei rapporti umani. Un’occasione per esplorare, attraverso il percorso e l’autodeterminazione delle due protagoniste, taluni dei momenti più bui della storia del Novecento.Instancabile l’impegno sociale e politico. La militanza nei movimenti femministi degli anni ’70 ha lasciato un segno profondo, alimentando battaglie per l’uguaglianza di genere. Il libro Donne in guerra, ad esempio, racconta le esperienze di donne coinvolte nei conflitti armati, rivelando il loro ruolo spesso dimenticato dalla storia.
Oltre alla narrativa, ha prodotto varie raccolte poetiche, opere teatrali e saggi, sempre attenta aintrecciare ricerca e documentazione con uno stile nitido e appassionato. Così porta avanti la riflessione su questioni sociali, di notevole impatto sull’odierna società.
Insignita del premio Fondazione Campiello alla carriera nel 2012, è un’artista che guarda al futuro senza rinnegare la tradizione come dimostrano “Corpo felice” (2018) e “In nome di Ipazia”(2023). In quest’ultimo libro la Maraini, che ha dipinto indimenticabili ritratti di donne senza nome e senza voce, conduce delle Riflessioni sul destino femminile (sottotitolo), con una lucidità e una passione ineguagliabili. Un accorato manifesto sulle schiavitù, di ogni tipo, cui ancora oggi la donna è sottoposta. Sulle libertà negate. Sulle barriere da abbattere. Sulle donne che hanno preteso di studiare e osano pensare con la propria testa. Sulle donne maltrattate, minacciate. Sulle donne violentate che hanno subito l’umiliazione di non essere credute nei tribunali. Sulle donne che lottano, dal Medio Oriente all’Occidente.
Dacia Maraini ha sempre affrontato tematiche legate alla donna, ma respinge l’idea di una “letteratura femminile”, ritenendola riduttiva e stereotipata, per non dire sprezzante: “la storia ha creato differenze culturali, non sessuali: per questo non esiste una letteratura femminile né come stile né come forma”. E non è tutto. Il suo pensiero si riflette nella continua lotta contro la disparità di riconoscimento tra autrici e autori. Basti pensare a come i premi Nobel per la letteratura siano accolti diversamente a seconda del genere. Dacia Maraini è un modello per molte donne, una consapevolezza che vive con profonda umiltà: “Mi fa piacere, anche se non ci penso mai, a meno che non me lo facciano notare. Se posso dare un suggerimento, chiederei per favore solidarietà, e ancora solidarietà. Le donne da sole non possono cambiare niente. Hanno bisogno di essere unite e solidali”. Quei “se posso” e “per favore”, racchiudono la determinazione di una battaglia pacifica e concreta, che avanzi passo dopo passo verso un mondo migliore.
Gentili lettrici, non credete che sia proprio attraverso l’unità e il supporto reciproco che le donne possano realmente fare la differenza? Noi ne siamo sempre più convinte.