• 16 Ottobre 2024
Editoriale

Si è scritto e si è detto che il governo Meloni è l’unico in sede Ue ad uscire rafforzato dal voto europeo. È vero. Così come è vero che la rovinosa debacle elettorale di Macron e di Scholz finirà molto probabilmente per investire l’Italia di quella centralità che i suoi numeri e la sua storia le assegnano, ma che l’asse carolingio egemone a Bruxelles le ha sistematicamente negato. Vero, inoltre, che la batosta subita dai 5Stelle riporta in quota il bipolarismo destra-sinistra, seppur nella sua versione aggiornata di confronto tutto al femminile tra Giorgia ed Elly. Vero, infine, che il responso delle urne è tanto più esplicito ed inoppugnabile se si considera che a vincere non è stato il solo partito della premier ma l’intera maggioranza che la sostiene. Siamo, dunque, in presenza di un’affermazione del governo in carica che non ammette repliche, ma che non per questo è scevro da spunti di riflessioni. Tutt’altro. L’insieme, infatti, di tutte queste considerazioni ci sprona ancor di più ad illuminare un aspetto rimasto fin qui in ombra, forse perché legato ad una lettura esclusivamente nazionale del voto europeo: la possibile connessione tra la sorprendente affermazione del Pd come primo partito nella circoscrizione Sud e la battaglia condotta dai suoi dirigenti e dai suoi militanti contro il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata che proprio in questi giorni ha ripreso il proprio iter alla Camera in vista della sua definitiva approvazione.

È una connessione che trova conferma nei numeri. Ad eccezione, infatti, della Calabria il partito guidato da Elly Schlein avanza ovunque nelle regioni della circoscrizione meridionale rispetto alle Europee di cinque anni fa: dal più 3,1 della Campania al più 5,5 della Basilicata passando per il più 3,5 dell’Abruzzo e del Molise e, soprattutto, l’eccezionale più 17 per cento della Puglia, sicuramente influenzato da fattori locali ma pur sempre impressionante nei suoi numeri assoluti. Un primato confermato anche dal voto di Napoli (26,67 per cento con un incremento di oltre tre punti percentuali), dove il cosiddetto “campo largo” – Pd, M5S e Avs (quest’ultimo a solo mezzo punto di distanza da FdI) – totalizza quasi il 65 per cento sotto il Vesuvio. Numeri che se non segnalano ancora una certa difficoltà del centrodestra a rimettere salde radici al Sud evidenziano certamente una tendenza che l’insistenza nel portare a compimento l’autonomia differenziata non potrà altro che accentuare, con buona pace di chi, tanto in Campania quanto in Puglia, immagina (improbabili se nulla cambia) remuntade alle prossime elezioni regionali. Numeri, in fin dei conti, che con la campagna elettorale ormai alle spalle imporrebbero alle forze di governo un pit-stop per meglio calibrare gli effetti politici di tale provvedimento. Tanto più che altri numeri, quelli del Nord questa volta, ci dicono che la “quasi approvazione” dell’autonomia differenziata non ha elettoralmente giovato più di tanto alla Lega nei territori dove essa è più radicata.

Ne era ben consapevole lo stesso Matteo Salvini, che non a caso ha preferito affidare le chance della sopravvivenza della propria leadership ad un signore delle preferenze come il generale Vannacci piuttosto che alla capacità di mobilitazione della legge in gestazione alla Camera. Segno inequivocabile che anche i più strenui propugnatori del ddl Calderoli considerano quel testo una bandierina ad uso interno priva di qualsivoglia aggancio con le istanze reali del Paese. Un vessillo logoro che indispettisce e allarma il Sud senza esaltare il Nord. Non fosse così, il Carroccio non avrebbe innestato la marcia del gambero anche in quel Veneto dove  l’autonomismo è di casa e dove il Leone di San Marco sprigiona tuttora una carica suggestiva che spesso sfocia nel secessionismo dantan. Difficile a credersi, ma anche nel regno di Luca Zaia la Lega è passata dal 14,59 delle politiche di due anni fa (il confronto con le elezioni europee di cinque anni sarebbe stato impietoso) al 13,15. Appena più contenuto, sempre rispetto al 2022, è il calo registrato in Lombardia, l’altra regione a guida leghista che ha fatto richiesta dell’autonomia differenziata: dal 13,92 al 13,09. Verdetti inoppugnabili che in altri tempi non avrebbero mancato di intimare l’”indietro tutta” ai padroni del vapore ma che oggi, con la propaganda in posizione preminente sulla politica, sembrano destinati a scorrere come acqua sotto la pancia delle anatre. A maggior ragione ove si consideri la peculiarità elettorale esibita dal Mezzogiorno in quest’ultima consultazione elettorale. Non è la prima volta, in verità. Anche alle politiche di due anni fa ampi territori meridionali, specie a Napoli e nel suo hinterland, avevano in controtendenza assegnato la palma di primo partito ai Cinquestelle. Giocava, tuttavia, in quel caso la necessità di difendere il Reddito di cittadinanza, poi abolito dal centrodestra.

Ora invece è come se il Sud avesse reagito ad una minaccia di segno diverso: non più l’eliminazione di una misura ritenuta a ragione o a torto lenitiva della povertà materiale, bensì l’introduzione di una nuova organizzazione dello Stato percepita come penalizzante per i propri territori e i propri cittadini. Il che basterebbe ed avanzerebbe a consigliare al più forte partito della coalizione di governo di analizzare il voto europeo anche alla luce delle scelte di governo fin qui impostate al fine di individuare quale tra queste ha portato FdI ad imporsi come prima forza politica ovunque tranne che al Sud. È vero che da tempo la politica ci ha abituato a liturgie post-elettorali sempre più inclini a celebrare che a riflettere, imponendoci spesso interpretazioni frettolose ed approssimative del responso delle urne, ma è altrettanto vero che una democrazia viva e vitale non può ridursi ad una banale conta dei voti, soprattutto quando, come in questo caso, di mezzo c’è il proporzionale e basta uno zerovirgola in più per far tutti vincitori. Trionfo e rovina, avvertiva Kipling, sono “due impostori”. Soprattutto il primo quando con i suoi bagliori ammanta di ingannevole luce anche gli anfratti più angusti e minacciosi. Invece, è proprio quando il vento gonfia le vele che bisogna avere le idee chiare su dove dirigere la prua. Fuor di metafora significa che il tempo per un approccio più problematico e meno scanzonato rispetto al tema dell’autonomia differenziata scade ora. Così come quello per dotarsi di una narrazione che suoni finalmente avvincente e convincente anche per il Mezzogiorno. Già, perché quella basata unicamente sulla responsabilizzazione delle classi dirigenti si è dimostrata finora insufficiente e inadeguata rispetto alla propaganda di un Pd rivelatosi abilissimo nel far sparire le proprie impronte digitali dalla cosiddetta “secessione dei ricchi”. Sono i numeri a certificarlo. Non coglierli finirebbe, alla lunga, per creare una frattura insanabile tra Sud e centrodestra. Per motivo molto semplice: l’autonomia differenziata disegna una gara fra territori truccata in partenza, dove chi sta bene andrà a stare sempre meglio e chi sta male finirà ancora peggio. Questa cosa qui gli elettori meridionali forse non l’hanno compresa del tutto ma di sicuro l’hanno intuita. Ed hanno risposto nell’unico modo previsto dal codice democratico: premiando con il voto chi vi si oppone. È troppo chiedere a chi governa di fermare la giostra e dare il segnale di “ricevuto”?

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).