Circa quarant’anni fa, la pubblicazione da parte delle edizioni Copernic di Parigi di un album di disegni del grande scrittore francese Henry de Montherlant (1895 -1972) rivelò un suo aspetto sconosciuto che impressionò perfino chi lo conosceva in maniera non superficiale. Fu Pierre Sipriot, giornalista e studioso di Montherlant, a curare la singolare pubblicazione che rivisitandola oggi, mentre mi capita tra le mani, come felice riscoperta, mettendo ordine tra i suoi libri, non ha perduto assolutamente interesse e contribuisce ad illuminarci maggiormente sulla personalità di Montherlant e sulla coerenza del suo universo ideale nel quale si situano pure disegni che soltanto all’apparenza possiamo giudicare “elementari”, se non banali.
La visione aristocratica dell’esistenza, in verità, emerge prepotentemente dai “segni” che Montherlant affida occasionalmente a fogli di fortuna: in essi le passioni dello scrittore sono evidenti come nelle pagine dei suoi romanzi. E rimandano al mondo delle forme del quale Montherlant avvertiva il progressivo affievolimento nell’epoca sempre più caratterizzata dall’invadenza di gusti volgari e dalla sostanziale regressione della bellezza di fronte alla mercificazione della cultura.
Le “forme” a cui Montherlant offre profili riconoscibili sono guerriere, eroiche, agonistiche, classiche o soltanto ispirate a canoni estetici non attaccati dai virus della modernità. Gli atleti come i toreri, le “olimpiche” fisionomie maschili e femminili sono gli “studi” che il disegnatore propone quasi per far conoscere un mondo sempre più nascosto, invisibile a occhi che ormai sembrano riuscire a vedere soltanto proiezioni del reale, ma non ciò che ne costituisce l’essenza.
“Montherlant disegna svelto – osservò Sipriot – per fissare situazioni colte per caso e con la rapidità d’un colpo d’occhio”. Così fin da bambino.
Infatti, Montherlant mostrò di possedere un’innata predisposizione per il disegno dalla più tenera età, rivelando, con il passare del tempo, uno stile “intuitivo” come per la scrittura, tanto che i legami che uniscono i disegni all’universo letterario montherlantiano sono evidentissimi e rinviano alla sua esperienza personale, alla sua morale.
Dai disegni emerge una “tentazione” greca, se così si può dire, nella quale l’eleganza delle forme si accompagna ad una plasticità gioiosa in un contesto armonico nel quale il senso delle proporzioni si fonde con l’elasticità dei corpi nudi dai quali non traspaiono mai tratti di pur involontaria volgarità. In essi, anzi, s’individua con maggiore nitidezza l’ispirazione aristocratica dello scrittore. Penso, ad riguardo, ad un libro in particolare: Les Olympiques in cui la descrizione apollinea della grazia degloi atleti è espressione di quel mondo ideale delle “forme” alla cui ricreazione lo scrittore ha dedicato tutta la sua vita letteraria.
In Montherlant la compiaciuta insistenza sul nudo non è assolutamente morbosa: è semplicemente un modo per esaltare il chiaro realismo delle forme che può suonare provocatorio nell’epoca in cui contempliamo smarriti la morte della divinità quale principio germinatore della bellezza: “Il corpo nudo – annotava Montherlant – nella sua maturità e nelle sue rappresentazioni sarà ancora attuale tra diecimila anni”. Cioè sempre.
Dai nudi di Montherlant traspare una formidabile potenza vitale, un’incredibile gioia di vivere paradossalmente violenta e serena nello stesso tempo, come nelle raffigurazioni apollinee dei templi greci, nelle quali la ieraticità delle forme è addolcita dalla grazia dei lineamenti incomparabilmente espressivi nella loro apparente distaccata freddezza.
La Grande Guerra vide Montherlant mobilitato. Di quest’epoca è soltanto uno strano disegno di tomba in un cimitero militare. Il cadavere resuscitato solleva la lapide, il suo volto è quello di Montherlant. La pietra tombale reca questa iscrizione: “La gloria non se entierra”, la gloria non si seppellisce. Un motto che Montherlant avrebbe ricordato in seguito dedicandolo idealmente a tutti i cari morti della sua Guerra civile, oltre che a se stesso, sul limitare della sua fine terrena, a suggello della propria inimitabile vita d’artista.
Dopo la morte di sua madre, Montherlant conobbe a Siviglia il torero Juan Belmonte, il quale era solito, per pochi intimi, toreare nudo intrecciando con la bestia una sorta di macabra danza. Tutto ciò suscitava in Montherlant una forte attrazione erotica. Ed eroriche erano le seducenti danzatrici di flamenco che tra una corrida e l’altra incantavano lo scrittore. La Spagna di Montherlant era dunque la rappresentazione della morte e dell’amore lo indissolubilmente lo hanno accompagnato per tutta la vita. E ad esse egli ha dedicato non soltanto le pagine migliori della sua opera, ma i disegni più riusciti.
Nelle figure dei toreri non è difficile “leggere” l’intensa partecipazione di Montherlant al mondo della corrida che gli appariva come una sfida fatalistica, ma al tempo stesso consapevole e distaccata, del pericolo vissuto con stile, come una forma d’arte.
Nel 1925 Montherlant dà l’addio al disegno e chiude con la rappresentazione grafica di ballerine, toreri e calciatori. Scrive: “Tutto ciò che non è letteratura o piacere è tempo perduto”. E per giustificare il suo abbandono afferma: “Preferisco perfezionarmi in un’arte nella quale io possa essere maestro, piuttosto che in una nella quale non lo sono”.
Una scelta, non sappiamo quanto convinta. Dalle testimonianze che ci restano del Montherlant disegnatore, possiamo soltanto rammaricarci che non abbia continuato.