
Il grande filosofo Giulio Cesare Vanini avvicinandosi alla morte – ahimè, fece la fine delle castagne al fuoco, non prima di aver la lingua tagliata – disse: “Andiamo a morire allegramente da filosofi”. Mettere insieme la morte e l’allegria deve essere per forza roba da filosofi. Proprio da filosofi, non da professori di filosofia che è altro genere dell’umano più vicino all’impiegato che all’essere pensante. “C’è molto movimento – diceva Hegel – ma è movimento di vermi”. Mamma mia! C’è molto pensiero – si potrebbe parafrasare – ma è pensiero di professori. Rimasticature. Ruminazioni. Brontolii. Tutte cose che Manlio Sgalambro aveva in uggia. Per lui, alla maniera di Arthur Schopenhauer, ma potremmo aggiungere tanti altri nomi che furono filosofi fuori e contro l’università – uno per tutti: Croce, “mio amore e mio cruccio” – il filosofo da università è un parassita e la sua filosofia è la parassitologia. Meglio, a questo punto, il filosofo da bar la cui filosofia sarà caratterizzata dai temi eterni del governo, del calcio e delle donne, almeno non fanno danni come i filosofi impegnati che, sulla scia della rivelazione di Marx – “ho risolto l’enigma della storia” disse nei “Manoscritti” – diventano intellettuali al servizio della politica e una minaccia organizzata per la libertà. La natura filosofica non è domabile, non è in carriera, è selvaggia come la verità, come la vita, coma “La morte del sole” che è il titolo del suo primo libro pubblicato da Adelphi nel 1982.
Alla figura di Manlio Sgalambro, che è diventato noto al grande pubblico solo quando ha iniziato a scrivere i testi delle canzoni di Franco Battiato, è stato dedicato un libro: “Il coraggio della verità”, curato da Rita Fulco per Luigi Pellegrini Editore. Il testo raccoglie saggi, memorie, testimonianze. Tra queste ultime c’è quella di Francesco Iannello, giornalista, che riporta vari gustosi aneddoti. “Maestro – disse un’amica di Iannello rivolgendosi a Sgalambro – Berlusconi distrugge la cultura”. Si era al tempo del primo governo Berlusconi. Il filosofo di Lentini rispose in spirito di verità: “Dev’essere ben poca cosa la vostra cultura per lasciarsi distruggere da Berlusconi”. La cultura di Sgalambro era ben altra cosa. Una volta Roberto Calasso ha ricordato come andarono le cose per la pubblicazione de “La morte del sole”. Arrivò il manoscritto in casa editrice e c’era scritto: “Spett. Adelphi”. C’era una lettera con due righe impersonali: “Vi invio questo lavoro per una eventuale pubblicazione nelle Vs. edizioni”. Il manoscritto fu letto ed ebbe un giudizio negativo. Ma lo prese in mano Calasso: “Fui colpito dal fatto che il frammento finale del manoscritto portasse un’epigrafe di Gottfried Benn, che si concludeva con le parole Fini du tout”. Invece, era l’inizio. “Cominciai a leggere e avvertii un timbro anomalo rispetto a chiunque altro scrivesse di filosofia in Italia. E, se mai, più affine a un qualche irto teologo seicentesco o a un corrusco alessandrino”. Era la voce di Sgalambro: discordante, aspra, percettiva. Perché per Sgalambro, con il quale si poteva essere in accordo o in disaccordo – non è questo il punto – “pensare era ancora un duello dove tutto è in gioco”, come lo era stato per il suo “ideale maestro”, Schopenhauer, che era pervaso da “allegria pessimistica”, come il Vanini.