Il presidenzialismo è il grande assente nello scarso dibattito istituzionale (o in quella che sembra più verosimilmente la sua parodia) in questi ultimi tempi. Sorprende che dopo aver conosciuto una stagione di notevole interesse si sia fatto il vuoto attorno ad esso. E proprio quando il distacco tra leadership e popolo sembra più accentuato. Misteri della politica italiana. Una riflessione sul presidenzialismo, comunque, è tutt’altro che eccentrica ai nostri giorni, sempre che si voglia tornare a discutere di assetti istituzionali e non soltanto di leggi elettorali.
Il presidenzialismo, ad onta della corta memoria dei più, resta un tema cruciale che ha attraversato il Novecento come un fiume carsico fino a situarsi al centro del dibattito costituzionale con la forza dell’idea che lo ispira e lo sostiene: la democrazia diretta. Anche all’Assemblea costituente, tanto per ricordare un momento altamente significativo della storia italiana del dopoguerra, ci fu chi propose la soluzione presidenzialista allo scopo di battere il trasformismo, la frammentazione partitocratica, l’instabilità governativa, l’indifferenza dei cittadini e, dunque, una maggiore partecipazione degli stessi alla determinazione del “decisore”. I rappresentanti del Partito d’azione e tra essi, in particolare, Piero Calamandrei e Leo Valiani, impegnarono tutte le loro energie in una delle Sottocommissioni della Costituente per far valere le ragioni del presidenzialismo, ma non ottennero i risultati sperati.
Negli anni Sessanta fu il repubblicano Randolfo Pacciardi, con il suo movimento “Nuova Repubblica” a rilanciare il presidenzialismo, al punto di guadagnarsi accuse di golpismo. Contemporaneamente, sulla stessa lunghezza d’onda, si ponevano alcuni “giovani leoni” della Democrazia cristiana, aderenti al gruppo “Europa ‘70”, che ripresero le tematiche presidenzialiste guadagnandosi diffidenze ed antipatie nel loro partito. Poi venne la stagione socialista: Bettino Craxi, con l’ausilio intellettuale di Luciano Cafagna, rilanciò la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta la necessità di operare un radicale mutamento della forma di governo. Il Movimento Sociale Italiano assecondò il tentativo craxiano ricordando a tutti che la prospettiva presidenzialista aveva fatto il suo ingresso nella discussione politica italiana grazie ad esso che fin dalla nascita, nel 1946, ne aveva fatto uno temi più incisivi e coerenti della sua proposta istituzionale, soprattutto per merito di due figure di spicco come Carlo Costamagna e Giorgio Almirante. Una quarantina d’anni fa, il compianto Gianfranco Miglio ed il suo “Gruppo di Milano” gravitante attorno alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica, rianimò il dibattito sul presidenzialismo nel quadro più complessivo della riforma della Costituzione. La tematica sull’elezione diretta del capo dello Stato, quindi, ha avuto lungo corso sia dal punto di vista dottrinario che sul versante più propriamente politico. E’ un inquietante segni dei nostri tempi che non se ne parli praticamente più.
Eppure la cosiddetta antipolitica dovrebbe far riflettere sulla circostanza che essa, al di là di facili spiegazioni demagogiche, nasce proprio dal distacco tra i cittadini e le istituzioni dai primi avvertite come estranee quando non ostili. Riparlare oggi del presidenzialismo dovrebbe essere conseguente a tale constatazione, ma la povertà della discussione politica autorizza a ritenere che quasi nessuno è seriamente interessato alla revisione delle istituzioni. Nonostante tutto, però, la convinzione che i tempi siano maturi per riproporre tematiche del genere c’induce a credere che prima o poi riaffiorerà l’esigenza che il presidenzialismo ridiventi il cuore di una proposta radicale motivata dalle esigenze di modernizzazione del sistema e quindi che una tematica “antica” eppure straordinariamente “nuova” per gli esiti decisionisti e partecipativi ai quali implicitamente tende, è quantomai attuale poiché registriamo, a differenza di molti distratti osservatori del disfacimento del sistema politico, l’affermarsi di una tendenza estremamente importante, cioè a dire un radicale cambiamento nella sfera della sovranità.
La sovranità politica oggi ha assunto connotatati molto diversi a quelli che aveva fino a pochi anni fa. Essa, in virtù della creazione di molteplici centri di potere che hanno sostanzialmente parcellizzato la democrazia senza avvicinare i cittadini alla stessa, è divisa tra enti sopranazionali, enti territoriali, autorità indipendenti: tutti fattori che non sono e non potevano essere contemplati nella Costituzione la quale si fonda, invece, sulla sovranità concepita sul modello dello Stato-nazione il quale, com’è noto, discendeva da un’antica concezione dello Stato che aveva avuto in Jean Bodin il più grande teorico e fu codificata in Europa con la pace di Westfalia nel 1648.
Proprio perché sono radicalmente mutate le forme della sovranità, credo si possa convenire che assistiamo all’emergere di una sovranità che trae legittimità dal basso, dai cittadini, dai movimenti, dagli enti territoriali e sopranazionali a cui vengono delegati o devoluti buona parte di molti dei poteri che in precedenza appartenevano in esclusiva allo Stato nazionale. Siano entrati, con ogni probabilità, in quella dimensione dello Stato prevista da Giovanni Althusius fondata, in una certa misura, sul principio di sussidiarietà che oggi connota la legittimazione di un nuovo tipo di sovranità; sussidiarietà che impone che le decisioni vengano prese, al più basso livello possibile, da parte di chi sopporta le conseguenze delle decisioni stesse. Attraverso la sussidiarietà si attiva la democrazia integrale; un principio non soltanto economico, dunque, che ha attraversato tutto il Novecento.
I diversi livelli di sovranità è indispensabile che trovino unità (no0n soltanto formale o simbolica) in una figura che tragga la propria legittimità dai cittadini: l’elezione diretta del capo dello Stato come istanza unitaria della molteplicità delle componenti della società civile; al contrario, continueremo ad assistere al diffondersi del policentrismo, fino ai limiti estremi dell’incontrollabilità e, dunque, alla disgregazione dell’unità statale priva di rappresentanza unitaria. Rilevo anche una contraddizione patente tra il modo di eleggere i presidenti delle giunte regionali e provinciali, i sindaci ed il presidente della Repubblica. Sarebbe opportuno dare uniformità alla designazione dei capi degli esecutivi, per evitare che i meccanismi diversi portino ad una sostanziale differenza nel modo di governare.
Dunque, il presidenzialismo s’impone anche come elemento di unione delle componenti organiche territoriali della nazione la quale resta, ad onta di tutte le interpretazioni a contrario, soggetto morale, civile e culturale dal quale non è possibile prescindere.
Il presidenzialismo non bisogna considerarlo come una sorta di controporte, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori della modernizzazione del Paese. Da essa, dal momento decisionale “forte”, non si può prescindere, infatti, se si intende procedere alla modernizzazione sociale e delle strutture civili, se non si dotano, cioè, i centri decisionali di poteri efficaci che, al momento, non dimentichiamo che vengono esercitati da soggetti diversi dalla classe politica e quindi privi della legittimità a rappresentare interessi e bisogni.
Il presidenzialismo, quindi, è anche un elemento di chiarificazione all’interno dei rapporti tra i poteri dello Stato. Con la sua adozione si stabilisce una netta linea di demarcazione tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo. Il Parlamento può, effettivamente, esercitare un efficace controllo sul governo, avendo questi la sua fonte di legittimazione fuori dalle aule parlamentari.
La formula della Repubblica presidenziale ha oltretutto una sua carica di suggestione quasi “mitica” perché avvicinando i cittadini al potere, si propone come immediatamente visibile, riconoscibile, comprensibile proponendosi quale rottura rispetto ad un sistema come l’attuale nel quale le degenerazioni partitocratiche sconfinano nel trasformismo e nella rottura del patto fiduciario con gli elettori. Tutto ciò risulta immediatamente evidente a differenza del cosiddetto “premierato”, del quale si parla approssimativamente e confusamente, sulla maggior valorizzazione della figura del presidente del Consiglio: in questo caso si resta nell’ambito del governo parlamentare che è il vero equivoco da superare.