• 10 Ottobre 2024

Queste poche pagine si offrono qui a mo’ di una piccola e semplice meditazione personale, maturata sull’onda della lettura del celebre saggio dedicato dalla filosofa ebrea e teorica della politica Hannah Arendt (1906-1975) al pensatore di Ippona (Die Liebesbegriff bei Augustin, Berlin 1929; ed. it. Il concetto damore in Agostino, Milano 2001, a cura di L. Boella). La giovane Arendt, che sarebbe divenuta, nei decenni successivi, più nota al grande pubblico per i suoi densi e magistrali testi di filosofia politica, già allieva di Karl Jaspers e memore delle lezioni su Agostino tenute a Marburgo nel 1921 dal suo mentore e maestro Martin Heidegger, vi si peritava di esplorare –  con un approccio riconducibile all’allora dominante paradigma fenomenologico, e con una particolare enfasi posta sulle strutture categoriali della dimensione esistenziale –  tutta la straordinaria ambiguità del concetto di amore agostiniano, che sembra oscillare, in effetti, tra i due poli (solo in apparenza antitetici) della negazione ascetica di sé e della altrettanto necessaria dilectio proximi; poli condensati, se si vuole, nella regola d’oro del Signore (“ama il prossimo tuo come te stesso”).

Ci si voglia scusare se, in questo breve testo, spontaneamente vergato sull’onda delle impressioni ricevute dalla lettura del saggio in questione, straricco di citazioni agostiniane, abbiamo ritenuto opportuno discostarci dai canoni tradizionali del registro “accademico” (note, bibliografia, rimandi e citazioni), per privilegiare una tonalità più intima ed “emotiva”, quasi aforismatica, che meglio si addice – ad avviso dello scrivente – a restituire il dramma di una questione spirituale non risolta e per noi dirimente, che il poderoso travaglio interiore di Agostino ci restituisce tale e quale, consegnandoci alla domanda delle domande: “Come amare l’altro?” (in altri termini: “Come amare il mondo senza essere del mondo?”).  

Se l’attuazione del proposito di uscire dal mondo rinunciando a ciò che del mondo e nel mondo ci distoglie inevitabilmente dall’amore di Dio (ammesso e non concesso che a questa fuga mundi possa ridursi la ben più sottile e complessa essenza del monachesimo: occorrerebbe discuterne…), come conciliare l’aspirazione del monaco (o del santo) a donarsi interamente a Lui senza che in questa scelta di oblazione, che si presume irreversibile e totalizzante, non si annidi il rischio di compromettere una pura, equilibrata e oserei dire pienamente umana relazione con il prossimo, che sola ci consente, in ultima analisi, di trascendere il nostro asfissiante perimetro egoico?

Da qui il paradosso: se, per ipotesi, odiassi me stesso, come potrei, di converso, non odiare anche il mio prossimo, nella stessa misura? O, ancora, laddove mi annullassi “eroicamente” rinunciando a tutto ciò che mi qualifica per limitarmi ad amare (diligere) chi mi sta accanto, non finirei per disattendere al supremo comandamento sancito dal Signore, per cui il sano e genuino amore di sé – che a differenza dell’individualismo, cristianamente parlando, è lungi dall’essere un disvalore – si identifica in buona sostanza con la stessa ragion d’essere dell’amore dell’altro?    

In poche parole: poiché il mondo, come scrive la Arendt, «è sempre già un mondo costituito dall’uomo», come può darsi, per Agostino (leggi: cristianamente) «lincontro del prossimo con la creatura che nega se stessa?».

Si eccepisce, di solito, avanzando con questa affermazione una qualche pretesa di verità: non è forse insito, a prescindere dalle variabili dipendenti dalle dinamiche psicologiche dell’io empirico, nell’atto stesso con cui il soggetto si consacra interamente al Creatore, estraniandosi dal mondo, il dovere di estendere il raggio d’azione dell’amore da se stesso a tutte le creature, ma solo in quanto e nella misura in cui è in esse che Dio si annuncia ontologicamente come fondamento?

La posizione di Agostino, a questo proposito, è netta:

Item diligere proximum, id est omnem hominem, tamquam se ipsum, quis potest, nisi Deum diligat?

Parimenti, chi può amare il prossimo, cioè ogni uomo, come se stesso, se non ama Dio?

(Expos. Ep. Ad Gal. 45)

Liberata in tal modo dall’angustia asimmetrica e bilaterale dell’amore profano, la creatura (= il cristiano? il monaco? l’eremita?) «ama nel mondo il mondo sicut Deus».

Così, prosegue la Arendt,

si realizza la negazione di sé, che restituisce al tempo stesso a ogni appartenente al mondo, e anche a se stesso, il proprio senso, derivante da Dio.

Lo sviluppo di questa dialettica tra auto-negazione (isolamento), presupposto della forma di vita monastica, e amore del prossimo (apertura), può ben dirsi il cuore della riflessione critica di Hannah Arendt su Agostino, fermo restando che, agli occhi della filosofa tedesca, di famiglia ebraica, si tratta comunque di un plesso alquanto problematico, dal momento che la creatura «restituita alla sua origine» – rispetto all’animale sociale che si sperimenta nella finitezza della sua dimensione fisico-sensibile – si trova oramai, in ragione della sua scelta di campo anti-mondana, nell’impossibilità di fare dell’altro un oggetto d’amore fine a se stesso, cui normalmente ci accosta per quello che è o per come ci appare in quanto tale e non per ciò a cui – per suo tramite – siamo indirettamente elevati e rinviati.

Ne consegue, logicamente, che ogni rapporto tra l’uomo e il suo prossimo – tema sul quale la giovane Arendt indugia con grande originalità per le implicazioni potenzialmente “politiche” e “comunitarie” che esso comporta – che non sia incentrata su Dio, o che addirittura lo escluda a priori dall’orizzonte dialogico-relazionale, risulta – come è ovvio –  incompatibile con la dilectio proximi, che in Agostino procede di pari passo con l’isolarsi dall’immanenza, pur nella consapevolezza – ed è questo un ulteriore paradosso o elemento aporetico che la Arendt mette in luce dal suo peculiare punto di vista, in cui l’«amore del mondo» (fatto di lingua, cultura, terra, identità e vissuti storici) ingloba e sopravanza di gran lunga quello del «prossimo», considerato – che

l’isolamento viene realizzato e non abolito in relazione al mondo in cui la creatura vive comunque, per quanto isolata.

Ragion per cui l’amare tutti in Dio indistintamente o, se si preferisce, Dio in tutti, nel solco della rinuncia a sé,

lascia colui che ama nell’isolamento assoluto, mentre il mondo continua a essere eremus per tale esistenza isolata.

In questo modo, prosegue la Arendt,

[…] viene mantenuto l’isolamento di colui che ama, che entra in contatto con il prossimo solo in quanto in lui ama Dio.

Fuori da questa prospettiva, tanto cara ad Agostino, si corre, tuttavia, il concreto pericolo di proiettare sull’altro che si dice o si immagina di amare fantasie o aspettative che non gli corrispondono, destinate a deludere, giacché «in effetti, tu non ami in lui ciò che è, ma ciò che vuoi che sia» (Ep. cxxx, 14).

In conclusione, il fatto che nella dilectio proximi, per come Agostino la intende, non sia tanto il prossimo ad essere amato, quanto l’amore in se ipso, costituisce, tuttavia, nella rigorosa interpretazione esistenziale e a-cristiana della Arendt, una conclamata «incoerenza», perché colui che nega se stesso per amare Dio nell’altro, condanna quest’ultimo allo stesso isolamento da cui il suo amore disinteressato ha preso le mosse e – così facendo e fors’anche senza volerlo – trasforma il mondo in un luogo dell’essere-insieme senza concreta comunità, in cui gli uomini appaiono e scompaiono, inghiottiti dalla morte.

Autore

Angelo Iacovella (Roma, 1968) è docente di Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi Internazionali-Unint di Roma. Ha pubblicato, per i tipi dell’Istituto Italiano di Cultura di Istanbul, Il Triangolo e la Mezzaluna (1997), uno studio sui rapporti tra la massoneria italiana e l’Impero Ottomano (edito anche in turco). È autore di numerosi saggi e traduzioni di testi arabi medievali, tra cui L’epistola dei settanta veli di Muhyî-d-Dîn Ibn al-‘Arabî (Voland), nonché Il pettine e la brocca. Detti arabi di Gesù (Il leone verde). Tra i suoi contributi più recenti alla storia del sufismo, la traduzione integrale, con introduzione e note, dei detti del mistico persiano Abû Yazîd al-Bistâmî (Le parole dell’estasi, Napoli, Istituto di Studi Filosofici, 2011).