• 7 Novembre 2024
Foto di Peter Glaser su Unsplash

La fotografia sbiadita dal tempo

Ci sono partite che fanno parte della storia del Calcio non solo per la posta in palio o per il risultato, ma soprattutto perché rendono alla perfezione lo spaccato di un’epoca. Gli anni trenta del secolo scorso furono segnati dalla crisi economica degli Stati Uniti scoppiata nel ’29 e dalla conseguente depressione che si sommò ad una povertà diffusa senza confini; a questo si aggiunsero quei fermenti sociali e politici che pochi anni dopo portarono alla seconda guerra mondiale.

Quello in Uruguay non solo fu il primo Mondiale  di Calcio ad essere disputato, ma fu soprattutto lo specchio fedele di quegli anni. Per l’Europa parteciparono solo Belgio, Francia Jugoslavia e Romania. Ad eccezione delle Britanniche che addussero la loro presunta “superiorità” per non andarci, le altre nazionali dovettero rinunziare sia per la mancanza di risorse economiche, sia per il lungo viaggio in mare fino a Montevideo – almeno quindici giorni – che in molti non avrebbero sopportato.

La fotografia scattata prima del calcio di inizio della Finale tra Uruguay e Argentina è la sintesi che racchiude il tutto. La partita venne giocata il 30 luglio 1930, nello stadio del Centenario a Montevideo alla presenza di 68.346 spettatori ufficialmente comunicati dal Comitato organizzatore, ma stimati in oltre 90.000 dalle fonti giornalistiche. A prescindere dal numero, gli spettatori vennero perquisiti all’ingresso e la Polizia sequestrò bastoni, coltelli, asce, pistole e qualche bomba carta sul cui possibile impiego ci sono pochi dubbi. Nella foto si vede l’arbitro belga John Langenus in completo nero, con giacca lunga, cravatta nera con righine orizzontali, camicia bianca e pantalone alla zuava. Dovette pensare che il suo compito non sarebbe stato dei più facili perché prima della partita pretese un’assicurazione sulla vita in favore della sua famiglia, un mezzo pronto a raggiungere il porto appena finita la partita e il posto su una nave pronta a salpare entro un’ora. Già l’inizio non promise bene perché al suo arrivo sul campo Langenus fu fermato dalla Polizia; tredici individui, tutti tratti in arresto, si erano presentati prima di lui dichiarando di essere l’arbitro. L’equivoco venne chiarito anche grazie all’intervento del Console belga e persino, così si narra, del sarto che gli aveva preparato la divisa. Abbigliati in modo diverso –uno in giacca nera doppiopetto con camicia bianca e pantaloncini a ginocchio, l’altro con pantalone lungo bianco, camicia bianca e giacca blu con risvolti bianchi- si intravedono i due guardalinee,  il belga Henry Christophe e il boliviano Ulises Saucedo. Quest’ultimo, nonostante fosse anche l’allenatore della Bolivia, aveva arbitrato la gara del primo turno tra Argentina e Messico! Pensate a una cosa del genere oggi. Nella foto ci sono ovviamente i due capitani, Josè Nasazzi per l’Uruguay e Manuel Ferreira per l’Argentina. Quello che subito risalta è che i due giocatori non hanno il numero sulla maglia, a quel tempo non ancora previsto. Il primo match importante in cui vennero indossate le maglie numerate fu la finale di FA Cup della stagione 1932/33, tra Everton e Manchester City; le due serie prestampate, una bianca e l’altra rossa, vennero consegnate alle squadre dopo un sorteggio e all’Everton toccò quella bianca. Ma di quella finale c’è un’altra cosa che dà la misura di quanto il tutto fosse organizzato in maniera artigianale. Le due squadre non si misero d’accordo sul pallone con cui giocare, perciò la FIFA decise salomonicamente (oggi le decisioni della Federazione Internazionale hanno solo motivazioni economiche) che il primo tempo si sarebbe giocato con il pallone degli argentini ed il secondo con quello degli uruguagi. Di diverso avevano la forma e lo spessore delle sezioni di cuoio chiuse dall’immancabile laccio; soprattutto il pallone degli uruguaiani era più pesante e di questo gli argentini si lamentarono a lungo. L’ultima nota di colore riguarda lo Stadio del Centenario, dove fu disputata la partita. Venne costruito per l’occasione e si narra che il rivestimento in alcune parti era ancora fresco per cui molti spettatori ne staccarono un piccolo pezzo portandoselo via per ricordo. La finale fu vinta dall’Uruguay per 4 a 2, con le ovvie polemiche da parte degli argentini che acuirono la rivalità tra le due nazioni. Rivedendo quella foto non posso che giungere ad una conclusione sin troppo ovvia. C’era un tempo in cui si riusciva a fare qualcosa di importante nonostante la mancanza di mezzi economici, di organizzazione e di strutture. Oggi, grazie ai faraonici diritti pagati dalle televisioni e alle generose sponsorizzazioni dei colossi dell’economia mondiale, non si può disputare una manifestazione calcistica senza una spettacolarizzazione di solito pacchiana e un’organizzazione quantomeno a cinque stelle. In fin dei conti, oggi come cento anni fa, per disputare una partita basterebbero ventidue giocatori, una terna arbitrale, un pallone e un campo di gioco con un prato da calpestare. Ma tant’è.

Il fuorigioco che cambiò il Calcio

La maggioranza degli appassionati di Calcio poco conosce dei cambiamenti apportati nel tempo al fuorigioco e l’importanza decisiva che hanno avuto nel cambiare la tattica e i ruoli.  Per la regola attuale un giocatore si ritiene in posizione di fuorigioco quando – nel momento in cui un compagno giochi il pallone – egli si trovi nella metà campo avversaria, più vicino alla porta avversaria rispetto a dove si trova il pallone nel momento del passaggio e tra di lui e la linea di porta avversaria non ci siano almeno due giocatori avversari, uno dei quali può eventualmente essere il portiere. Disciplinato per la prima volta dall’IFAB nel 1863, il fuorigioco fu codificato nel 1864 con il  primo Regolamento Ufficiale della storia del Calcio. Inizialmente si prevedeva che fra il giocatore che riceveva un passaggio e la porta avversaria vi fossero perlomeno 4 giocatori avversari.. Nel 1866 il fuorigioco passò da 4 a 3 uomini e dal 1907 si iniziò a sanzionare questa infrazione solo se il giocatore si trovava nella metà campo avversaria. Nel 1924, venne introdotto il concetto di fuorigioco passivo. La svolta epocale arrivò nel 1926 quando, per rendere più spettacolare il gioco che risultava essere povero di gol (bastava che la squadra difendente facesse avanzare un solo difensore perché scattasse la trappola del fuorigioco) l’International Football Association Board decise il passaggio dal fuorigioco da 3 a 2 giocatori difendenti tra la linea di porta e il più vicino avversario partecipante all’azione. E’ la regola che vige ancora oggi.

Proprio nell’estate in cui fu introdotta questa fondamentale modifica del fuorigioco, l’allenatore inglese Herbert Chapman passò dall’Huddersfield Town all’Arsenal. Durante la preparazione precampionato ebbe un’intuizione rivelatasi vincente: decise di far arretrare il mediano centrale in posizione permanente tra i due difensori, per far fronte alla superiorità numerica avversaria in attacco che la nuova regola avrebbe favorito. A questo giocatore, che a tutti gli effetti era diventato un libero, furono dati i compiti sia di impostare la manovra che di marcare i giocatori offensivi (di solito il centravanti) della squadra avversaria. Gli altri due difensori furono allargati più verso i lati del campo con lo scopo di contenere le ali avversarie, diventando così  simili ai terzini attuali. Allo stesso tempo Chapman decise di far arretrare le due mezzali d’attacco verso il centrocampo trasformandoli da finalizzatori a rifinitori e facendoli diventare a tutti gli effetti dei trequartisti. Questi giocatori dovevano formare una sorta di cerniera tra il reparto arretrato e quello avanzato. Il reparto di mezzo era quindi costituito da quattro giocatori che formavano un quadrilatero. L’attacco invece rimaneva formato dalla punta centrale  e dalle due ali che avevano compiti prettamente offensivi. Il modulo era quindi passato ad essere un 3-2-2-3 che visto graficamente sembrava disegnare sul terreno di gioco una W ed una M; era nato così  il celebre WM di Chapman che fu subito ribattezzato il Sistema. Nello stesso periodo in cui in Inghilterra prendeva piede il Sistema, in Italia si stava sviluppando un altro disegno tattico. Vittorio Pozzo, allenatore sia della Nazionale che del Milan, insieme al tecnico dell’Austria Hugo Meisl sviluppò una sua variante della c.d. Piramide di Cambridge (2-3-5).

Dal punto di vista offensivo Pozzo studiò un cambio simile a quello di Chapman: far indietreggiare verso il centrocampo le due mezze ali d’attacco che però non diventavano dei trequartisti restando più arretrate. Era però la difesa ideata da Pozzo che differiva  maggiormente dal modulo di Chapman. Pozzo decise di arretrare i due mediani destri e sinistri in difesa facendoli diventare a tutti gli effetti dei difensori esterni che avrebbero contrastato le ali avversarie. Allo stesso tempo fece arretrare anche il mediano centrale che andò a posizionarsi tra i due ricoprendo un ruolo a metà tra il centrocampo e l’attacco. Questo nuovo ruolo, chiamato del centromediano metodista, era quello chiave della squadra perché  il giocatore che lo interpretava aveva il compito di iniziare ed impostare la manovra. Questa nuovo modulo, a differenza di quello di Chapman, aveva caratteristiche più difensive perché  prevedeva la presenza di un uomo in più in difesa piuttosto che uno in più a centrocampo. La difesa a quattro fu  l’antesignana delle attuali difese con due centrali e due esterni, salvo che allora i due esterni avevano un ruolo esclusivamente difensivo di contrasto alle ali avversarie. Visto graficamente questo 2-3-2-3 sembrava disegnare sul campo due W, fu così  che nacque il WW che sarà da lì in poi conosciuto come il Metodo. In Italia Il Sistema sarà adottato fino alla fine degli anni cinquanta quando ci si renderà conto dei suoi limiti. Solo le squadre più forti, come il grande Torino,  potevano permettersi di giocare con questo tattica cosicché le più piccole, per poter meglio difendere, inizieranno ad adottare il cosiddetto Mezzo-Sistema che si evolverà nel bistrattato Catenaccio che però tanto ha dato al nostro calcio. Negli anni successivi i moduli sono cambiati; molto lo si deve al grande miglioramento della qualità della vita che ha favorito l’aumento esponenziale delle capacità atletiche dei calciatori. Di contra, soprattutto oggi gli schieramenti in campo si attengono a criteri rigidamente applicati che hanno in comune la capacità di sacrificare la fantasia del singolo in favore del monotono disegno tattico. Il ricordo perciò va al Brasile del Mondiali del ’70, forse il miglior Brasile di sempre. Schierava in avanti quelli che in pratica erano cinque numeri 10: Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelè e Rivelino, liberi di girovagare per il campo e far impazzire i difensori avversari (all’epoca si difendeva a uomo). Questo dovrebbe far comprendere un concetto elementare: si può adottare qualsiasi modulo per schierarsi in campo, ma se difronte hai dei fuoriclasse lo schema per fermarli non è stato ancora inventato. Al netto di un paio di giocatori oramai in età avanzata che stanno concludendo la carriera godendosi il danaro in un posto ameno, il problema del Calcio attuale è proprio la mancanza di fuoriclasse.  

Il condottiero

Finale del Campionato del Mondo disputato nel 1950 tra Brasile e Uruguay. Di quella partita è entrato nella leggenda del Calcio un personaggio straordinario, dal fisico statuario, il viso  tagliato nella pietra e lo sguardo del condottiero: Obdulio Varela, il capitano dell’Uruguay a cui l’indimenticato Osvaldo Soriano dedicò uno dei racconti del suo celebre  tbol. Ad assistere alla partita al Maracanà di Rio de Janeiro c’erano ufficialmente 199.854 spettatori, ma in molti li stimarono in almeno 205.000. Prima di scendere in campo Varela disse ai suoi compagni palesemente impressionati e intimoriti da quella muraglia umana:  “Non guardate in alto, quelli là fuori non esistono”. Fu così che all’inizio del secondo tempo si vide di che pasta fosse fatto il capitano della “Celeste”. Albino Friaça segnò per il Brasile e il Maracanà divenne una bolgia, un girone dantesco. Comprendendo che cosa sarebbe successo in campo, Varela prese dalla sua porta il pallone e iniziò a camminare piano, come se stesse passeggiando; ci mise più di un minuto per raggiungere il centro del campo tra le urla assordanti dei brasiliani. Andò dall’arbitro,  l’inglese George Reader; a lui e ai giocatori brasiliani che si erano avvicinati disse più volte Orsay, ma nessuno riusciva a capire. Orsay era come in Uruguay chiamavano il fuorigioco storpiandolo dall’inglese Offside. Chiese un interprete perché non parlava l’inglese, ma dopo un lungo conciliabolo in lingue diverse Reader fu irremovibile.

A quel punto il rumore del Maracanà era già calato d’intensità.; il gioco non riprendeva, con lo sconcerto dei duecentomila sugli spalti. E così quel boato assodante che aveva seguito il gol diventò pian piano solo un brusio sommesso. La pantomima di Varela aveva raggiunto il suo scopo: raffreddare gli animi, spegnere quell’entusiasmo incontenibile e contagioso che avrebbe dato una spinta irresistibile alla nazionale verdeoro.

Intervistato anni dopo Varela disse: “Volevo solo delle spiegazioni. Ero certo al mille per mille che poco prima che Friaça segnasse il loro gol, uno dei guardalinee (lo scozzese Mitchell) aveva alzato la sua bandierina per segnalare un fuorigioco, riabbassandola velocemente un secondo dopo che la palla era entrata in rete. Posso capirlo, poveretto. Probabilmente se avesse fatto annullare quel gol lo avrebbero ucciso! Ma io pretendevo delle spiegazioni, come deve fare un capitano e perciò continuavo ad insistere e prendere tempo nonostante i giocatori brasiliani mi insultassero e qualcuno mi sputò addosso. Sulle ali dell’entusiasmo ci avrebbero distrutti, annichiliti e probabilmente seppelliti di gol,  adesso invece era cambiato tutto”.

E cambiò davvero tutto perché erano trascorsi almeno cinque minuti tra il gol di Friaça e la ripresa del gioco: sul Maracanà aleggiava quasi il silenzio. Dopodiché la cronaca racconta che al sessantaseiesimo Juan Alberto Schiaffino segnò il gol del pareggio e al settantaquattresimo Alcides Ghiggia portò in vantaggio l’Uruguay che così vinse la partita e il titolo. Quella sconfitta fu una tragedia nazionale in Brasile e  passò alla storia come il Maracanazo; per i brasiliani è una ferita che non si è ancora chiusa. Varela era un uomo tutto di un pezzo, che non accettava compromessi. Disprezzava la Federazione Uruguayana che aveva finanche sostituito le medaglie d’oro dei giocatori con delle copie in argento. Detestava gli allenatori, i giocatori e i dirigenti corrotti, i giornalisti loro compiacenti e tutti quelli che infestavano il calcio sudamericano. Disse che se fosse tornato indietro non avrebbe mai giocato a Calcio.

Autore

Nato a Napoli nella seconda metà degli anni cinquanta. Sportivo appassionato, calciatore in gioventù, dirigente sportivo di società del settore giovanile. Avvocato con molteplici hobby e scrittore a tempo perso, ha pubblicato due romanzi e una raccolta di racconti di Calcio.