• 16 Ottobre 2024
Cultura

Nel novembre 1994, dopo aver trattato delle tragedie che avevano funestato il secolo ormai al tramonto, l’ottantacinquenne Isaiah Berlin (1909-1997), di fronte all’uditorio della University of Toronto che lo aveva premiato con una laurea in legge honoris causa, si avviava a concludere con una marcata nota di ottimismo. “Sono felice di notare,” affermò, “verso la fine della mia lunga vita, le tracce di un cambiamento. La razionalità, la tolleranza, già abbastanza rare nella storia dell’umanità, non vengono disprezzate. La democrazia liberale, nonostante tutto, nonostante il grande flagello moderno del nazionalismo fanatico e fondamentalista, si sta diffondendo. Le grandi tirannie sono cadute, o presto cadranno – anche in Cina il giorno non è troppo lontano. Sono felice che voi, qui nel pubblico, possiate vedere il Ventunesimo secolo: sono certo che potrà solo essere un tempo migliore per l’umanità di quanto sia stato il mio terribile secolo. Mi congratulo con voi per la vostra buona sorte; ho il rimpianto di non poter vedere questo futuro luminoso che sono convinto stia per arrivare”.

In effetti, il primo quarto del Ventunesimo secolo si è impegnato a smentire queste previsioni. Si è arenata l’espansione del modello liberaldemocratico, soggetto nello stesso Occidente che gli ha dato i natali a tentativi di superamento in direzioni tecnocratiche o populiste, a recriminazioni per la presunta incapacità di soddisfare le esigenze di rapidità ed efficacia decisionale, di evitare la frammentazione della comunità o, viceversa, di rispondere adeguatamente alla crescente diversificazione culturale e valoriale. Sarebbe però erroneo cristallizzare Berlin alle prospettive ireniche impregnate delle speranze dei Nineties, confermando ciò che egli stesso, con autoironia, aveva detto una volta: “Non posso fare profezie, nonostante il mio nome”.

Tornando a indagare la riflessione berliniana, maturata proprio in quel drammatico Novecento, che egli attraversò in gran parte e con un ruolo non marginale in diversi dei suoi snodi principali, si ricava infatti un messaggio particolarmente utile ad analizzare i dilemmi attuali e approntare qualche soluzione. Ci si propone di farlo individuando e discutendo tre concetti: pluralismo, liberalismo, realismo. Approfonditi nella lunga carriera di filosofo e di storico delle idee, i loro contorni recano profonde tracce delle vicende che egli stesso aveva vissuto.

Andiamo con ordine. Il pluralismo, nell’accezione di Berlin, è la convinzione che i valori e i fini autentici difesi e inseguiti siano, non soltanto molteplici, ma reciprocamente incompatibili (irrealizzabili contestualmente e completamente) e incommensurabili (privi di un parametro assoluto, celeste o terreno, che aiuti a gerarchizzarli). Questo, egli reputava, era il senso dell’alternativa radicale posta da Machiavelli tra morale cristiana e morale politica. Il pluralismo, allora, è la consapevolezza che la realtà umana è inevitabilmente segnata dal conflitto e che intestare a un’unica morale il fregio dell’universale validità (ossia propugnare il monismo) condurrà, come già condusse, allo scatenarsi della barbarie più che a un Paradiso in Terra. Il righese Berlin lo aveva appurato a Pietrogrado, assistendo a episodi di violenza perpetrati durante la rivoluzione del febbraio 1917. Non sorprende che, riparato con i genitori nell’anglofila Inghilterra nel 1921, non avesse mai subito la fascinazione per il marxismo che colse, spesso temporaneamente, tanti suoi coetanei nella Oxford degli anni Trenta. Ma la condizione di pluralismo testata in prima persona fu, appunto, anche quella quale ebreo russo, convinto della connotazione culturale e nazionale dell’ebraicità, nel contesto britannico nel quale si acculturò senza obliterare il carattere composito della propria identità.

Il pluralismo culturale, allora: come gli confermò lo studio di Vico (incontrato tramite gli scritti di Croce) e di Herder, ogni cultura, ogni nazione, possiede una costellazione valoriale peculiare, una prospettiva e un modo di vita unici, che hanno necessità di esprimersi anche sul versante pubblico, onde evitare che il sentimento di appartenenza nazionale, capace di ispirare solidarietà, tracimi in aggressivo nazionalismo. Di qui l’adesione di Berlin al sionismo e la difesa portata, non acriticamente, a Israele.

Eppure il pluralismo, il filosofo rimarcava, non coincide con il relativismo, tantomeno con il soggettivismo. I valori, per quanto variamente declinati dagli individui e dalle culture, sorgono da bisogni eminentemente umani, sono parte di un terreno morale condiviso. Ciò permette la comprensione transtorica e transculturale. Nel relativismo culturale e nel soggettivismo, al contrario, Berlin scorgeva la rimozione della comune umanità, l’annullamento di ogni limite morale. Qui, egli avrebbe creduto, stavano le sorgenti della crudeltà nazista e dell’Olocausto.

Il contributo alla sconfitta dell’Asse Berlin lo offrì dalle stanze statunitensi del British Information Service e dell’ambasciata britannica. E così poté stringere duraturi rapporti di amicizia con esponenti affermati e con astri nascenti della scena culturale e politica americana: il teologo protestante Reinhold Niebuhr, lo storico Arthur M. Schlesinger Jr., il diplomatico George Kennan (a cui Berlin fornì indicazioni fruttuose per la stesura del celebre long telegram). Intellettuali, questi, impegnati tutti nella revisione del liberalismo americano lungo le linee di un realismo che si sarebbe dovuto applicare tanto nella politica interna quanto, nelle forme del containment, nel panorama geopolitico che si apprestava al bipolarismo.

Ecco allora una fonte degli altri due elementi dell’elaborazione berliniana: il liberalismo e il realismo. Se il pluralismo è un fatto, se non tutti i valori e non tutti i fini possono essere realizzati appieno e contemporaneamente, consegue che sono indispensabili la tolleranza e una sfera di non interferenza, un’area di “libertà negativa” che permetta agli individui e ai gruppi di operare scelte. Eppure, nemmeno al liberalismo Berlin concedeva validità universale. Anch’esso era considerato il frutto di una pianta non facilmente trapiantabile al di fuori della specifica civiltà in cui era germogliato: l’Europa di Machiavelli, di Vico, di Montesquieu, di Herder, di Constant e di Mill; e quindi l’Occidente: il grappolo di culture che, nel travaglio delle proprie vicissitudini, in larga misura erano pervenute ad apprezzare l’attitudine liberale.

Il liberalismo berliniano, pertanto, discendeva dalla comprensione che l’essere umano è – secondo il motto kantiano caro al filosofo oxoniense – un “legno storto” dal quale non si può ricavare nulla di dritto, di perfetto. Scaturiva dalla persuasione che all’imposizione di camicie di forza ideologiche o all’istituzione di una fisica sociale (teoricamente infallibile, storicamente sempre fallimentare) sia meglio preferire il compromesso, che i problemi non possano essere risolti tutti e una volta per tutte, che sia necessario contemperare le esigenze, gli scopi e i valori emergenti in ciascuna circostanza. Tenendo a mente, però, che le circostanze sono sempre collocate all’interno di un continuum culturale, eminentemente nazionale, che non può essere ignorato: esso fornisce il parametro più affidabile, ancorché locale e gradualmente mutevole, per giungere alla decisione, segna i margini di ciò che è ammissibile per non sconvolgere gli equilibri della convivenza di una collettività, indica la via migliore sulla quale è ancora saggio procedere.

Nel momento in cui le contrapposizioni ideologiche novecentesche hanno fatto posto a quelle, spesso più grossolane e parcellizzate, del nostro millennio, e mentre la democrazia liberale appare indebolita al cospetto dei nazionalismi, dei particolarismi e delle spinte tecnocratiche, la lezione di Berlin si svela ancora un serbatoio colmo di risorse, di insegnamenti ineludibili per far sì che, come egli scrisse, “l’umanità, la cultura, il liberalismo, la decenza, il tipo di valori morali per i quali quasi istintivamente viviamo, non scompariranno dalla Terra”.

Autore

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino e docente a contratto di Storia del pensiero politico all’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone. È membro del comitato di redazione di «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee».