Nelle settimane segnate dalla paura e dall’inquietudine per il dilagare  del Covid, cercando ragioni impossibili da comprendere rispetto a quanto stava accadendo e adattandoci al peggio pur con la speranza di vedere la fine quanto prima di un’epidemia che aveva tutti i tratti della pandemia, mi   capitò tra le mani un libro-intervista di Konrad Lorenz realizzato oltre quarant’anni fa per una trasmissione televisiva.  Vivere è imparare (Lindau)  è il titolo del testo, attualissimo, raccolto dal giornalista Franz Kreuzler. Sfogliandolo speravo di trovare qualche motivo che mi aiutasse a comprendere l’uomo di fronte alla sua possibile fine e, dunque, come un etologo si atteggerebbe davanti a tale apocalittica prospettiva. Niente. Ma la lettura  non fu inutile. Anzi, mi  rafforzò nella convinzione, maturata fin da giovanissimo quando incominciai ad occuparmi  dello scienziato austriaco, che, come dice in questo colloquio, “Dobbiamo cercare di diventare cittadini spirituali del mondo, anzi è proprio questo il presupposto di un governo ragionevole di tutta l’umanità. Se si vuole impedire la sovrapproduzione di beni e gli sviluppi esponenziali che ne derivano, occorre prima creare dei cittadini del mondo”. E noi lo siamo, possiamo diventarlo? Da quanto si capisce mi sembra impresa improba se non utopica. Basta ricordare  ciò che  piovve  sull’Italia da parte di nazioni “amiche” quando si profilò l’invasione del morbo, per renderci conto che la speranza di Lorenz era e resta vana.

“Il mondo è completamente impazzito”, diceva Lorenz. E aggiungeva: “Non solo di giorno in giorno è sempre più brutto, ma anche più cattivo, più immorale. Anche le parole ‘buono’ e ‘cattivo’ sono scomparse dal vocabolario dei mezzi di comunicazione. Non ci sono più  i cattivi, ma soltanto uomini che il mondo ha trattato male, e non ci sono più uomini buoni, ma soltanto uomini che sono stati condizionati nel modo giusto, ecc. E non ci si accorge che così facendo si sottrae all’uomo la più fondamentale libertà, cioè la libertà di decidere tra il bene e il male”.

Una lezione di etica che quanto più i tempi si fanno oscuri bisognerebbe tenere presente. Vivere, dunque, è imparare. E s’impara anche dalle debolezze e dalle catastrofi, come l’etologia insegna, dalle paure e dall’aggressività, dall’autorità e dalla sua mancanza. Insomma, la scienza “etica” di Lorenz è una scienza per il nostro tempo. Forse per questo messa in ombra da nuove filosofie salvifiche che nel momento in cui si rivelano fragili a spiegare le catastrofi, producono il panico o la migrazione nel nulla.

 Quando nel 1973 venne attribuito il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia a Konrad Lorenz vi fu una sorta di sollevazione negli ambienti scientifici che non mancò di contagiare anche quelli politici. Il ricercatore austriaco, noto per le sue indagini del comportamento umano attraverso lo studio dell’istinto animale e dell’adattamento ambientale, era ritenuto un fautore dell’antiegualitarismo. Non gli vennero risparmiate accuse anche infamanti, ma nel contempo i suoi saggi di carattere antropologico oltre che quelli strettamente connessi alla sua materia venivano sempre più studiati al fine di comprendere la decadenza che Lorenz denunciava tanto nella sfera intima dell’uomo quanto nel mondo circostante.

Al di là della “demonizzazione”, le opere di Lorenz s’imposero anche in ambito a lui non proprio favorevole soprattutto per merito di editori liberi come Adelphi in Italia che l’anno successivo pubblicò il libro di Lorenz di maggior successo, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, seguito da L’altra faccia dello specchio. In entrambi lo scienziato metteva l’umanità davanti al suo non proprio luminoso destino determinato dagli squilibri demografici, dall’inquinamento atmosferico, dal depauperamento delle risorse naturali, dalla massificazione del consumi, dall’invadenza della tecnologia fino a criticare appunto l’egualitarismo pervasivo del quale la struttura stessa delle megalopoli era lo specchio più evidente.

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