Quando, giovanissimo, m’imbattei nel libro di Renè Guènon, La crisi del mondo moderno, non potevo immaginare che dalla lettura ne sarei uscito trasformato. Il saggio è di quelli che lasciano il segno e ti fanno percepire la realtà nel profondo. La negazione della dimensione spirituale presiede la modernità, la caratterizza, le dà il tono, come si dice. Lo studioso francese, nella seconda metà degli anni Venti, quando diede alle stampe il suo volume, era già consapevole del disfacimento prodotto dal mito del progresso e dai numerosi corollari da esso discendenti. E provò a mettere nelle buone coscienze degli europei del tempo un sentimento: la decadenza. Nella speranza, naturalmente delusa, che essi l’accettassero e provvedessero a scrollarsi di dosso il mantello del nichilismo che li avvolgeva. Il crepuscolo della civiltà era nell’aria. Si sarebbe manifestato pienamente decenni dopo. Noi viviamo l’ultima fase, come preconizzò Guènon. E da essa siamo incapaci di uscirne. Inaccessibile ad ogni compromesso, come notò Evola nella prima edizione italiana del 1937, lo scrittore francese lanciò con la sua Crisi l’allarme più compiuto che completa, insieme con quelli lanciati da Spengler, Keyserling, Massis, Benda, una sorta di morfologia della dissoluzione. Anche per questo le anime deboli del nostro tempo si tengono lontane dalle diagnosi attualissime peraltro di Guènon.

Diagnosi che attengono alle grandi questioni irrisolte del nostro tempo, come il rapporto tra Oriente ed Occidente; la conoscenza e l’azione; la scienza sacra e quella profana; l’invadenza dell’individualismo; le degenerazioni del democratismo in populismo e totalitarismo; il materialismo connesso al determinismo ed al relativismo. Insomma un breviario delle contraddizioni che animano la nostra epoca non meno di quanto animassero l’epoca in cui le riflessioni guenoniane presero a circolare. E’ naturale iscrivere questo libro nella storia delle idee legate alla crisi dell’Occidente. Ma sarebbe ingiusto non ricordare che in esso l’autore si produce anche in formulazioni propositive circa la riapparizione dell’autorità, della religiosità, della spiritualità quali fondamenti della vita civile. Sarebbe ingiusto, perciò, relegare La crisi del mondo moderno tra le anticaglie intellettuali che non dovrebbero neppure più essere citate.

René Guénon, il pensatore tradizionalista più famoso e celebrato del Novecento, è ormai un “classico” che importanti e raffinate case editrici in Italia e non solo si contendono. Il momento appare assai propizio per rileggere il suo capolavoro, La crisi del mondo moderno, riproposto dalle Edizioni Mediterranee qualche tempo fa in una nuova edizione critica, corredata dall’introduzione “classica” di Julius Evola, ma arricchita dalle note e dai saggi di Gianfranco de Turris, Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa.

Il saggio è di quelli che lasciano il segno. Lo studioso francese quando lo  pubblicò (1927), era consapevole del disfacimento prodotto dal “mito” del progresso . E provò a innestare nelle buone coscienze degli europei il ragionevole e squassante sentimento della decadenza sperando che provvedessero a scrollarsi di dosso il mantello del nichilismo. Il crepuscolo della civiltà era nell’aria. Si sarebbe manifestato pienamente decenni dopo: noi ne viviamo la fase estrema. Inaccessibile ad ogni compromesso, come notò Evola nella prima edizione italiana del 1937, Guénon lanciò l’allarme circa le conseguenze derivanti dalla modernità, intesa come disfacimento dell’ordine tradizionale, formulando nel contempo  diagnosi che attengono alle grandi questioni irrisolte odierne, come il rapporto tra Oriente ed Occidente; la conoscenza e l’azione; la scienza sacra e quella profana; le degenerazioni del democratismo in populismo e totalitarismo; la pervasività del relativismo. Insomma un breviario delle contraddizioni che animano l’epoca presente non meno di quanto scuotessero quella in cui le riflessioni guenoniane presero a circolare.

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