• 12 Maggio 2024
Politica


 

“Riaffermiamo l’importanza della pace e della stabilità nello Stretto di Taiwan come fattori indispensabili per la sicurezza e la prosperità della comunità internazionale e chiediamo una soluzione pacifica ai problemi esistenti. Sosteniamo la partecipazione attiva di Taiwan alle organizzazioni internazionali, comprese le riunioni tecniche dell’Assemblea mondiale della sanità e dell’OMS, per le quali la statualità non è un prerequisito e dunque in veste di osservatore o ospite. Non vi è alcun cambiamento nella posizione di base dei membri del G7 Taiwan, compreso dichiarato uno politiche della Cina”. È, questo, un breve ma significativo passaggio della dichiarazione finale del vertice dei ministri degli Esteri dei Paesi del G7 a guida italiana svoltosi a Capri tra il 17 e il 19 aprile.

Le tensioni che, sulla spinta della postura aggressiva della Cina nei confronti di Taiwan, ciclicamente si riaccendono in un tratto di mare tra i più strategici dell’Asia-Pacifico toccano un’area tanto geograficamente lontana dall’Europa quanto rilevante. Pur sotto diversi profili, infatti, sia la Cina che Taiwan sono parti fondamentali per i commerci internazionali. Per questa ragione un versante di crisi che potrebbe essere visto solo come “locale” è invece suscettibile di conseguenze davvero “globali”: ecco perchè il G7 se ne occupa ed ecco perchè in particolare per gli Stati Uniti, impegnati nel confronto politico e commerciale con la Cina, la salvaguardia del cosiddetto “status quo” nello Stretto di Taiwan (ovvero il mantenimento della indipendenza di fatto dell’isola pur nel pieno riconoscimento del governo di Pechino come legittimo rappresentante della “sola Cina”) rappresenta una posta in gioco molto elevata, peraltro con una convergenza di posizioni quanto mai rara tra i democratici ora al governo e i repubblicani che sperano di riconquistare la Casa Bianca in autunno.

Intorno alla piccola Taiwan, dunque, gli interessi in gioco sono altissimi. Ecco perchè, in un dibattito comprensibilmente monopolizzato dai grandi scenari di crisi del nostro difficile tempo (Ucraina e Medio Oriente), le potenze del G7 insieme alla intera UE hanno affrontato il dossier taiwanese e riaffermato una posizione che appare davvero pienamente condivisa.

Nel contesto descritto, almeno a guardare le cronache, la voce di cui sentiamo meno parlare è in fondo proprio quella di chi rappresenta l’oggetto del contendere, ovvero Taiwan. Ma cosa è Taiwan? Domanda tutt’altro che peregrina pensando al fatto, come ha imparato in presa diretta chi scrive in un periodo di sei mesi passato a Taipei, la capitale taiwanese, che essa interroga anche gli stessi taiwanesi. La società taiwanese appare piuttosto divisa sulla visione del “chi siamo” tra vecchie e nuove generazioni: in sintesi, nella prima resiste ancora (anche ove vi è consapevolezza del rischio in termini di libertà e prosperità derivante dall’inglobamento nel regime cinese) un legame con la madrepatria; nella seconda l’identità solo taiwanese – un’identità che va al di là di aspetti pratici quali l’avere un passaporto e l’utilizzare una propria valuta – è sempre più forte e sentita. Generalizzare è difficile, ma certo il trend elettorale dell’isola sembra essere lo specchio di questa dinamica: gli ultimi due presidenti taiwanesi eletti (Tsai Ing-wen per due mandati e l’ultimo, William Lai, votato in gennaio e a breve in carica) rappresentano una linea politica che non propugna (in modo saggio e realistico sotto la minaccia militare cinese che pure è concreta) la dichiarazione di indipendenza dell’isola, ma che rifiuta qualsiasi ipotesi di riunificazione. Anche sull’onda del triste esempio di Hong Kong, ove il principio “uno Stato due sistemi” ha distrutto le residue garanzie democratiche pure alla base degli accordi sino-britannici che nel 1997 riportarono la città sotto la sovranità di Pechino: ancora una volta subentra il ricordo di chi scrive che, trovandosi a Taipei proprio nei mesi delle grandi proteste democratiche del 2020 duramente represse dalle autorità cinesi, ha colto quanto le cronache da Hong Kong abbiano colpito profondamente l’opinione pubblica taiwanese. L’approccio morbido presente nella dichiarazione del G7 sulla vicenda taiwanese, basato in definitiva sull’ipotesi di concedere a Taiwan la presenza in alcuni fori internazionali pur essendo una entità non esistente nel sistema Onu e al te mpo stesso sul riconoscimento totale del principio della “sola Cina” rappresentata da Pechino, rispecchia la necessità di non provocare reazioni scomposte da parte della Cina. La pur precaria situazione attuale rappresenta oggettivamente il massimo risultato possibile per allontanare la prospettiva di un aperto conflitto sullo Stretto di Taiwan. E’ interesse della comunità internazionale – ed è dunque una scelta saggia quella dei Paesi del G7, tra cui siede il Giappone, osservatore diretto e preoccupato della vicenda taiwanese – proseguire su questa rotta. In attesa certamente dell’esito delle elezioni negli Usa, ovvero il Paese dalla cui amicizia economica e anche militare dipende grandemente l’esistenza di Taiwan come Paese di fatto indipendente, come piena democrazia e come primo fornitore della catena globale dei micro-chip da cui dipende il funzionamento dei nostri smartphone e laptop, delle nostre auto e di molto altro senza cui non potremmo più vivere.


Autore

Laureato in Scienze politiche all’Università di Roma La Sapienza, è dottore di ricerca in Sociologia dello sviluppo. Ha svolto attività di ricerca a Taipei con il programma Taiwan Fellowship 2019. Giornalista pubblicista. Autore dei saggi “L’Asia sulla strada del futuro” (Pantheon), “Cina, il boom made in Africa” (Kore University Press) e “La pirateria del terzo millennio” (Mursia).