• 27 Luglio 2024
Lo scrittore del mese

Una poesia è un grido nel deserto. Oggi come ieri. Eppure la sua scarsa diffusione non scoraggia le tante anime elette che scrivono versi. Perché? Ha ancora senso oggi? La risposta non è esaustiva e univoca, neppure definitiva. Per ogni poeta è diversa. Si annida fra le pieghe della retorica più raffinata o nella capacità di rendere pregnante ogni singola parola. Un compito arduo ma soprattutto un dono di cui pochi sono dotati. Parlare delle percezioni di un poeta, coglierne l’ispirazione, entrare nel suo animo è un’operazione complessa. La affronteremo in punta di piedi, senza pretese di unicità, o singolarità di giudizio. Ci limiteremo a “passeggiare” tra poetesse e poeti che, a nostro avviso, hanno attraversato il deserto.

«Sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida, / sono il poeta che canta e non trova parole». Ecco il biglietto da visita di Alda Merini (1931-2009) Intensa, profonda, robusta e cospicua la Sua produzione che, nonostante un dichiarato antinovecentismo, attraversa le atmosfere decadenti del Simbolismo europeo evidenti nell’adozione dell’endecasillabo sciolto. Un metro tradizionale, depauperato della antica valenza e stravolto, anzi imbrogliato. Questo dice molto del carattere di Alda Giuseppina Angela, milanese doc, nata al civico 57 di viale Papiniano.

Deve la passione per lo studio alla presenza di un padre colto che trascorre il tempo libero insegnando parole nuove alla figlia alla quale, al posto delle bambole, regala libri. Alda a cinque anni riceve in dono proprio dal padre un vocabolario della lingua italiana, che quotidianamente sfoglia con lui. La madre, donna votata unicamente alla cura di famiglia e casa, non apprezza affatto le scelte educative di Nemo Merini, primogenito di un conte diseredato e privato del titolo per aver sposato una contadina. Lei vorrebbe per Alda, e per la sorella Anna, un tranquillo futuro di casalinga e madre. Ma era destinata ad altro la “bambina Merini”, così definita da Pier Paolo Pasolini, in modo poco gratificante ma non dispregiativo come lo intese Lei. Inizia a pubblicare fin dagli anni cinquanta. L’esordio, “La presenza di Orfeo”, cattura l’attenzione della critica e nonostante un ventennio di silenzio, cominciato negli anni Ottanta, la sua graffiante penna riceverà insigni riconoscimenti pubblici-Dama di commenda dell’ordine al Merito della Repubblica Italiana- e diverse candidature al Premio Nobel per la letteratura.

Le tematiche trattate sono connesse alla complessità e drammaticità della vita, che non le farà alcuno sconto. E un macigno greve, a suo dire non opprimente, segnerà la donna e l’artista. La Sua poetica, non l’ispirazione, subirà una sosta forzata e per circa venti anni affronterà un’importante crisi psichica. Preferiamo non definirla malattia perché tale non era per Lei, che lo ribadisce in poesia e in prosa: “Le mie impronte digitali/prese in manicomio hanno perseguitato le mie mani/come un rantolo che salisse la vena della vita, /quelle impronte digitali dannate/sono state registrate in cielo/e vibrano insieme ahimè alle stelle dell’Orsa Maggiore” (Poesia)

Rantolo e vita presenti nello stesso verso sembrano escludersi a vicenda, ma così non è nella Merini e nei più grandi poeti di sempre. Vita e Morte sono l’una l’inizio dell’altra, la seconda non potrebbe esistere senza la prima e viceversa. E, si passi l’ovvietà, entrambe capitano una sola volta all’essere umano. Ne è ben consapevole la poetessa e lo afferma a ogni piè sospinto: “Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno. Per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara” (da La pazza della porta accanto).

Impossibile non pensare a Giuseppe Ungaretti e ai lapidari versi:” La morte/si sconta/vivendo” (Sono una creatura).

Dunque, l’esperienza del manicomio, per chiunque terrificante, diventa fonte di acuta riflessione e ispirazione, ma anche occasione per non demonizzare gli ospedali psichiatrici.

Si comincia a intravedere una risposta alla domanda iniziale? La poesia supera il deserto, è socialmente utile e diventa immortale, se tocca le corde degli uomini di ogni tempo: “Bambino, se trovi l’aquilone della tua fantasia/legalo con l’intelligenza del cuore. / Vedrai sorgere giardini incantati/e tua madre diventerà una pianta/che ti coprirà con le sue foglie. /Fa delle tue mani due bianche colombe/che portino la pace ovunque/e l’ordine delle cose/. Ma prima di imparare a scrivere/guardati nell’acqua del sentimento” (Bambino).

Sebbene negli ambienti letterari la Sua poetica sia ampiamente riconosciuta, i versi meriniani non rientrano nell’immaginario collettivo. Per questo, malgrado riserve, lacune, omissioni e limiti relativi alla poetica e alla biografia della poetessa dei Navigli, plaudiamo al film “Folle d’amore” trasmesso in TV a marzo u.s.

Ha portato nelle case degli italiani la genialità unita alla umiltà di Alda Merini: un connubio che è solo dei Grandi.  

Autore

Originaria di Benevento, dopo il conseguimento della laurea in Lettere Classiche all’Università degli Studi di Pisa, si è dedicata alla docenza presso il liceo classico di Saronno (VA). Animata da vivo interesse per la Letteratura, l’Arte e la Musica, si è occupata di Teatro, allestendo numerosi spettacoli che hanno ricevuto riconoscimenti sia dalla Presidenza della Repubblica, sia da attori di fama mondiale, come Dario Fo. Attualmente sta realizzando un interesse coltivato nel tempo: scrivere. Autrice di numerosi testi