• 27 Luglio 2024
Religione

Chi è l’uomo – io, tu – se non il Christus patiens – il Cristo dolente? Ognuno di noi nel corso dell’esistenza è attraversato da dolori terribili e atroci e l’idea della vita felice è guardata non con scetticismo ma allontanata con sdegno come qualcosa di offensivo. Aristotele, che pur riteneva possibile la felicità umana – l’eccellenza dell’areté –, non esitava ad ammettere che là dove l’uomo subisce gravosi lutti, come quelli della figliolanza, la felicità è illusoria, fosse anche quella della realizzazione della propria indole e della vita contemplativa. La Fortuna, al modo di Machiavelli, ha in mano i fili delle vite umane, umanissime, e anche la virtù più virile non è detto che riesca a trovare il bandolo della matassa del governo della propria vita. Tuttavia, dicendo che l’uomo è il Christus patiens – come Benedetto Croce fa in quel mirabile suo ultimo libro: Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici – non s’intende dire che ogni individuo può patire, chi più chi meno, i colpi delle avversità ma che la qualità della vita umana è fatta proprio dall’avversione e che la stessa virtù è solo il rovescio governante della Fortuna che le ha offerto la possibilità ora di sentirsi quasi un Dio – gioioso e vitale – e ora di maturare la consapevolezza della fragilità umana, persino della sua miseria.

Se guardiamo la figura del Cristo dolente, inchiodato al legno, gravoso del suo stesso peso che acuisce il dolore dei chiodi, piegato nella carne e piagato nello spirito, vediamo la nostra comune umanità e – magari ricordando ciò che abbiamo visto con i nostri occhi in famiglia o tra gli amici – speriamo che quello strazio ci sia risparmiato. Perché, quante sono le forze che ci attraversano che non si lasciano ricondurre nell’ambito del nostro dominio? Il Christus patiens è propriamente questo: ogni individuo è al centro della vita di forze contrastanti con le quali lotta nel tentativo incessante di ottenere un ordine dominabile dalla mente e dalla volontà. Quella che chiamiamo vita umana, all’interno della quale c’è la forza del pensiero che la penetra, la metodicità delle scienze che la manipola, la fatica della volontà che le dà forma, è questa lotta senza fine, al di là e al di qua della quale non c’è nulla, nemmeno il niente che privato di espressività e lotta è solo un astratto ramo secco. La nostra vita individuata è all’interno di un circolo in cui attraversiamo in ogni istante tutta la danza bacchica dei desideri e delle passioni che si fanno intuizioni che riempiono i concetti che illuminano la volontà che crea senza sosta il mondo che ci dà, insieme, vita e morte, ci sveglia e ci sbrana. Chiusi come siamo in questo circolo simile a una prigione – che aspiriamo con la conoscenza a trasformare in un regno – oscilliamo in perpetuo tra pensiero e azione, controllo e abbandono di noi stessi. Anzi, la nostra massima aspirazione è ora il Controllo e ora l’Abbandono. Vita natural durante, lo si voglia o no, lo si sappia o no, questo continuamente facciamo: controlliamo per avere sicurezza, ci abbandoniamo per avere vita. In questo incessante circolare nel circolo delle forze che dominiamo e ci dominano viviamo la nostra vita ora secondo libertà, ora secondo schiavitù.

Ma sogniamo un sogno che è il frutto della nostra debolezza. Il sogno che sogniamo è quello di avere in mano totalmente la nostra vita e l’umanità tutta: il controllo assoluto. E’ un sogno che rapidamente si tramuta in incubo: il controllo assoluto è il Possesso che si presenta con l’illusione della sicurezza e della realizzazione dell’umanità. Un inganno. La stessa conoscenza umana, nella sua dimensione storica, è fatta per estromettere l’incubo infernale della vita totalmente dominata al di sotto della quale c’è l’origine dell’illusione e dell’inganno: la vita beata.

Non potendo avere l’Assoluto sotto forma di conoscenza proviamo ad averlo sotto forma di abbandono. Ma se il controllo assoluto è il Possesso, l’abbandono assoluto è lo Spossessamento. E’ la perdita di sé, lo scendere al di sotto dell’umano nel “regno animale” o naturale, è la perdizione o il dileguarsi, il diluirsi, il liquefarsi, l’abbandonarsi alla sciolta alterità, alla vita prima della vita umana (o dopo prima dell’ultima ora). Come nel sottosuolo del controllo assoluto c’era l’illusione della vita beata, così nel sotterraneo dell’abbandono assoluto c’è lo stesso patimento o agognato convincimento che la beatitudine è la perdita di sé.In entrambi i casi ci si sottrae alla lotta che è non solo sinonimo ma equivalenza di vita umana e di governo limitato o liberale di sé e degli altri. L’unico modo che ci è dato per vivere la nostra esistenza secondo la comune umanità del Christus patiens è quella di accettare la nostra dimensione tragica e, dunque, lottare. Tutto ciò che è umano, anche i più comuni e “naturali” sentimenti, sono frutto di lotta o, per usare una parola un po’ più dolce ma non meno vera, lavoro. Una concezione della vita umana sì fatta sarà tacciata di essere pessimista; ma la cosa vera è opposta perché il lavoro meditato è già di suo al di là della disputa del pessimismo e dell’ottimismo e se il pessimismo è rinuncia e abbattimento, sentimento dell’inutile, la lotta umana è già reazione e risposta e financo amore per la vita. Per la vita possibile ossia umanamente abitabile.

Autore

Saggista e centrocampista, scrive per il Corriere della Sera, il Giornale e La Ragione. Studioso del pensiero di Benedetto Croce e creatore della filosofia del calcio.