• 10 Ottobre 2024
Cultura

“Imparare a vivere” – titolo dell’ultimo libro di Maurizio Ferraris (Laterza) – può essere reso con “imparare a campare” o, ancor meglio, “imparare a stare al mondo”. Imparare a vivere, infatti, significa convivere, perché se ci poniamo il problema di vivere bene o di condurre una vita vera – cosa che solo gli esseri umani fanno, mentre gli altri esseri vivono e basta senza tante storie – vuol dire che siamo al mondo e il mondo è popolato da altri esseri che se non ci tolgono di dosso la solitudine non ci permettono, però, di star da soli. Dunque, che si possa o no imparare a vivere – sicuramente non si può insegnarlo – è necessario convivere. Ora litigando, ora riappacificandosi, il più delle volte sopportandosi – “la vita è una cosa che si sopporta” dice il mio Croce – ma inevitabilmente convivendo.

Queste ed altre considerazioni si fanno leggendo il libro di Maurizio Ferraris come se si andasse a spasso tra le rovine del pensiero in compagnia sua e di Proust, Heidegger, Derrida, Nietzsche, Fitzgerald e qualche altro che fa capolino qua e là come, ad esempio, Umberto Eco. Ai tempi dell’insegnamento impossibile a Bologna, dopo aver cenato, discusso e spettegolato, l’Umberto echeggiava: “E poi, c’è quel problema della morte”. Ecco, sia detto in modo diretto, senza giri di parole: la vera protagonista del libro di Ferraris è la morte. E’ vero che si parla della vita, di quella biologica e di quella culturale, di quella fisica e di quella metafisica e perfino di quella ultraterrena ed eterna, come se non dovessimo morire mai o dovessimo morire per rinascere o nascere veramente solo uscendo dal mondo, ma alla fin fine si parla della vita vissuta che fiorisce e sfiorisce solo perché, come diceva Eco dopo cena, c’è quel piccolo problema della morte. Questo “ospite fisso” – son parole di Ferraris – una volta che è entrato in casa non se ne va più. Hai voglia a scacciarlo, mandarlo via, allontanarlo: non se ne va. Nella solitudine della nostra vita, in cui ci facciamo compagnia solo collaborando al lavoro della comune e mortalissima umanità che siamo, la morte è la nostra più fedele compagna di viaggio.

E allora non ho altre parole se non quelle alte del “Soliloquio” di Croce che in questo libro non ci sono ma che ci sarebbero potute essere: “La morte sopravverrà a metterci a riposo, a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare”.

Autore

Saggista e centrocampista, scrive per il Corriere della Sera, il Giornale e La Ragione. Studioso del pensiero di Benedetto Croce e creatore della filosofia del calcio.