• 27 Luglio 2024

Belfast cuore patriottico d’Irlanda. Ad un certo punto della vita riannodare le trame di un passato non ancora ritenuto tale diviene addirittura necessario. Una sorta di metafisica del ritorno, che ci spinge ad indagare i meandri reconditi della nostra esistenza e che riesce a proiettarci, di nuovo, con rinnovata insistenza, nei luoghi del cuore: quelli che mai davvero abbiamo dimenticato o cristallizzato in qualche cassetto impolverato nello stipo della memoria. È il sentiero delle radici, che è difficile insabbiare perché ci attraversano e ci innervano. Ed è il medesimo sentiero che il regista shakespeariano Kenneth Branagh ha deciso di calcare nel film “Belfast”,  candidato a sette Oscar: una cartolina autobiografica della capitale nordirlandese direttamente incastonata nel travaglio e nei tumulti dei Troubles, gli scontri durissimi degli ultimi decenni del secolo scorso che nelle Sei Contee videro fronteggiarsi in una cruenta guerra fratricida la comunità cattolica nazionalista e la comunità protestante e fedele alla corona inglese.

La pellicola, in bianco e nero per pennellare di un’ulteriore patina di nostalgia il racconto, e solo in alcuni tratti contaminata dal colore, si declina infatti nella Belfast del 1969 sulla narrazione dell’infanzia del giovane Buddy (Jude Hill), un bambino di nove anni incantato dal pallone e dal cinema, dalla luna e da altre amenità fanciullesche.

Come Branagh, anche lui di sangue irlandese e costretto ad emigrare da Belfast quando aveva la stessa età, sfuggendo al conflitto, il protagonista proviene da una famiglia protestante che appartiene alla working class dell’Isola verde: il padre (Jamie Dornan) è sballottato tra l’Irlanda del Nord e l’Inghilterra, dove fa il carpentiere per sbarcare il lunario e appianare la montagna di debiti accumulati, mentre la madre (Caitriona Balfe) insieme ai nonni (Ciaran Hinds e Judi Dench) accudisce amorevolmente Buddy e suo fratello maggiore.

Ma la storia, con il suo flusso incessante e inarrestabile, fa presto ad abbattersi su questa atmosfera flemmatica, piuttosto consueta, ordinaria. È la storia che senza sconti rompe quel microcosmo familiare e lo restituisce al dramma di un popolo e di una nazione lacerata. Non passano pochi minuti dalle riprese iniziali che un Buddy terrorizzato si trova dinanzi al fuoco delle molotov e all’odio incarnato dagli assalti ai cattolici della sua stessa strada.

Tutto, insomma, è stravolto al ritmo delle barricate erette e del livore che inonda i quartieri. Intanto Buddy cresce, continua a sbirciare la luna e a sfogliare le avventure di Thor. Forte dei consigli dei nonni, corteggia una cattolica, Catherine, sua compagna di classe. Rifiuta la logica della contrapposizione sociale, non ne comprende i motivi e le dinamiche. Come suo padre che, seppure costantemente pressato dal criminale locale, Billy Clanton, orangista intransigente e convinto attivista, si estranea dalla battaglia che nel mentre sta divampando e comincia a immaginare una via di fuga da una città diventata sin troppo pericolosa.

La trova, in Inghilterra appunto. Una soluzione però aspramente osteggiata da Buddy e da sua madre: il timore è quello di lasciare il nido, il focolare domestico. La fetta di terra in cui si è nati e che – in un modo o nell’altro – dà forma a ciò che siamo. Ed è così che, allora, il film si carica del monito che gli regala profondità. Sia per il fatto che Belfast ci indica gli itinerari della coesione di una comunità, contro il settarismo e l’incapacità di guardare con lungimiranza al processo di una difficile ma indispensabile pacificazione; sia perché la pellicola si rivela un inno all’identità che non gela, alle danze festose e alle pinte alzate al cielo, all’origine, quella che Branagh si impone di riscoprire anche attingendo al puzzle intimo dei suoi ricordi.

Alla fine, causa la piega che prenderanno gli eventi, la famiglia sarà obbligata ad andarsene. Il giovane protagonista sale quindi sul bus, prossimo ormai alla partenza. La direzione è quella che lo porta lontano da casa. Oltremare. Forse nella consapevolezza che, per usare le parole rassicuranti del nonno, rimarrà comunque Buddy di Belfast.

Autore

Classe 2001, di Gioia del Colle, studente di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Dal 2020 scrive su barbadillo.it