• 27 Luglio 2024

Ma c’è una scontentezza che è differente, incarna uno stile e testimonia un portamento di altro tipo nello stare al mondo. Non è una infelicità incapacitante, non è tetra tristezza e non consiste in un deperimento più o meno repentino dell’anima. È forse al contrario una risposta, personale o collettiva, essenzialmente esistenziale, al fatalismo di oggi e ai suoi esiti velenosi: un’insoddisfazione come ribellione o rivolta allo stato vigente delle cose. A sfogliare il nuovo libro di Marcello Veneziani, “Scontenti – Perché non ci piace il mondo in cui viviamo”, si rintracciano riflessioni acuminate e si individuano prospettive propizie rispetto ai cascami oscuri dell’epoca corrente. Aleggia la sinfonia dell’ulteriore, lo sguardo non conforme oltre le categorie marcescenti del verbo dominante (ben affrontate ne La Cappa, di cui l’ultimo uscito rappresenta una sorta di sequel).

Veneziani indaga in profondità lo scontento, le sue origini e le sue ricadute, ad esso associa la cifra preminente e persistente del nostro tempo e arriva a ricavarne una fotografia veritiera quanto complessa, stratificata. È di una puntuta puntualità quando risalendo alle cause del malessere diffuso afferma che “si sono allargati a dismisura i desideri fino a prevalere sulla realtà e sui diritti”, quando sostiene che il “punto di svolta del nuovo potere è nel suscitare, amministrare e manipolare lo scontento; mobilitare i desideri e moltiplicarli, acuire per poi esaudire le mancanze, spostando continuamente i traguardi in avanti”. “Ogni scontento”, scrive, “viene distolto da cause politiche o da proteste sociali e reindirizzato verso ambiti che attengono alla vita singola e si possono esaudire a livello personale; cambiare la nostra vita, qui e ora, senza violare l’Assetto”.

Si legge una condanna della società dei consumi, del ripiegamento narcisistico e della logica del bisogno finto e insieme inestinguibile. Contro la tendenza al pensiero denutrito, viene smascherato il meccanismo dell’odierna omologazione: “La libertà devi esercitarla nella tua vita privata, in pubblico devi invece conformarti al prototipo indicato e ai suoi tracciati, fluidi nel privato, rigidi nel pubblico: se oltrepassi la linea consentita suonano i campanelli d’allarme e si accendono le spie; scatta l’accusa di razzismo, di fascismo o di varie fobie (omotransfobia, xenofobia, sessofobia) per ogni espressione di non conformità agli imperativi vigenti”.

E intanto il filosofo pugliese intona una critica allo smarrimento del senso di identità e della consapevolezza comunitaria (“Schiavo è colui che non ha legami ma è fungibile, spostabile, intercambiabile, si può utilizzare dappertutto e in diversi modi, è ridotto a utensile, a cosa”); si rivolge all’Italia mentre parla di “eutanasia di un popolo, di una nazione, di una civiltà”, e giunge nel Meridione, “terra dello scontento”, con i paesi del Sud “avvizziti e abbandonati, accartocciati su se stessi, disabitati”; esprime disaccordo riguardo al “ritrovato filoatlantismo dell’Europa, e in particolare dell’Italia”, giudicato “anacronistico e masochistico”, sempre sul piano geopolitico ritiene che “accettare un mondo plurale, multipolare” vuol dire “accettare la realtà e rigettare ogni velleitaria mira egemonica ed espansionistica”.

Veneziani nuota nelle acque degli attuali fenomeni politici senza sconti. Nella matrioska del potere, vede il governo politico come la bambola più piccola, subordinata a condizionamenti interni ed esterni, a vincoli di carattere economico, internazionali, militari. Sottolinea la fluttuazione del malcontento che insegue il nuovismo, “il mito della verginità disceso in politica”. Secondo Veneziani, la sfida per la Meloni (a parere dell’autore gli scontenti in larga parte l’hanno votata) sarà quella di riuscire a mediare dignitosamente ed efficacemente tra i grandi poteri e le istanze popolari.

Menziona tra gli altri Pasolini, Sciascia, Jean Cau, Hesse, Zolla, Dugin. Si occupa del ’68, “anno dello scontento”, e ricorda la sua gioventù di destra nelle pagine dedicate a Carlo Falvella e a quelli che chiama i “patrioti scontenti”: “Opponevamo l’Italia ideale all’Italia legale, il mito al presente e la storia alla cronaca: lo scontento si redimeva nella ‘nostalgia dell’avvenire’; ma tale restava nel rapporto quotidiano con la realtà”.

L’affresco dello scontento tocca più livelli. Investe campi disparati, si declina in modo variabile. Parliamo di “un’arma a doppio taglio, un farmaco e un veleno, che giova o nuoce a seconda degli ambiti a cui si applica e della disposizione d’animo che l’accompagna”. La scontentezza insomma può svilire; ma, come si diceva, se opportunamente indirizzata diventa un motore, una risorsa, scintilla creativa a disegnare rotte diverse. È questa scontentezza che va coltivata. Assomiglia al fuoco che arde, uno slancio della volontà che innaffia il seme del cambiamento…

Autore

Classe 2001, di Gioia del Colle, studente di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Dal 2020 scrive su barbadillo.it