• 10 Ottobre 2024

Con Benedetto XVI non solo è finita  un’ epoca. È finito il  tempo ontologico della tradizione.

Era nato il 16 aprile del 1927. A Marki in  Germania. È morto il 31 dicembre del 2022 in  Vaticano. Un tempo. Un’epoca. Una missione. Ha attraversato la luce ma anche il bosco e la foresta.
Il bosco e la foresta sono metafora di buio e di caos. Ci salverà la preghiera ci diceva spesso Benedetto. Il Papa della Tradizione. Ci salverà il Vangelo. Cristo che sciogli i nodi nella Croce della vita. Siamo figli che cerchiamo nel bosco una fa lama di luce e nella foresta uno spicchio di umile speranza. Restiamo avventure oltre l’orizzonte. Nella “Imitazione di Cristo” il viaggio ha il suo sentire: “Nessuno è più ricco, nessuno è più potente, nessuno più libero di chi sa abbandonare se stesso e ogni cosa e porsi all’ultimo posto”. Dobbiamo uscire dal bosco che ci tormenta. Che tormenta la nostra frequente quotidianità. Da laico in Cristo credo che c’è una “teologia” del Cristo che ci possa far capire la storia. Ci possa far capire le lacerazioni nella storia. Un maestro di Fede è Benedetto XVI.
Affidarsi al “potere del silenzio” è comprenderlo (cardinale Robert Sarah). “Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire”, così nella “Omelia” che il Papa Benedetto XVI pronunciò il 24 aprire del 2005. Benedetto XVI citava spesso una chiosa di Sant’Ignazio di Antiochia nella quale si sottolinea: “E’ meglio rimanere in silenzio ed essere, che dire e non essere”. Si tratta di una Lettera agli Efesini. Il grande Pontefice, ovvero il Papa dallo sguardo lungo e dalla preghiera contemplante. Perché la debolezza di Dio è più forte degli uomini nel messaggio paolino.
Antonio Socci ha tracciato un vero e ontologico passaggio cristologico nel suo “Avventurieri dell’eterno”. Con “Il segreto di Benedetto XVI” (Rizzoli) tocca alcuni nodi ancora non risolti e che non facilmente si risolveranno. L’attuale pontificato è un nodo di gordio. Ci saremmo dovuti domandare, come dovrebbero chiederselo ancora tutti i pellegrini in Cristo, perché Benedetto XVI è rimasto ancora papa? Emeito.
È un costante dialogare che parte proprio da Cristo nella centralità di un umanesimo che va oltre le frontiere di Bonifacio VIII per attraversare San Paolo nella Damasco del deserto e compiersi in Agostino che detta il linguaggio delle confessioni grazie alla definizione della bellezza come metafisica e mai come teologia. A questi riferimenti si era ancorata anche la filosofa spagnola Maria Zambrano, sulla quale lavoro da decenni per cercare di definire un pensiero come confessione appunto anche di un genere letterario. Zambrano è tra Sant’Agostino e Paolo.
Agostino diventa il porto che emerge dal sepolto per farsi Terra Promessa. Ma è il concetto di infinito che si sottolinea sia in Kierkegaard che in Dostoevskij, che sono sempre stati riferimenti di Benedetto XVI, in una dimensione che va oltre la siepe e si focalizza proprio nel concetto di eterno.
Scrive Don Luigi Giussani: “Ognuno di noi è stato scelto attraverso un incontro gratuito perché si renda egli stesso incontro per gli altri. È dunque per una missione che siamo stati scelti…”. Una missione in questo nostro tempo. La lacerazione che ci attraversa tocca il vuoto delle coscienze ed è indifferenza il legame tra laicità e relativismo, tra sostanza ed essenza. Siamo dentro un viaggio privo di metafisica. Siamo anche stanchi ma mai ci si arrende. Mendicanti di deserti o nel deserto. Rincorriamo la Grazia e la Voce.
Don Luigi Giussani: “Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo“. Una “parabola” che diventa la metafora vera di questo nostro tempo di contraddizioni e scavanti lacerazioni. Siamo in cammino. Quale sarà mai il nostro porto o la nostra Isola o il nostro stare tra le vele in mare aperto?
La lezione di Don Giussani diventa caratterizzante come quella di Benedetto XVI ed è chiaro che siamo ad un pensiero forte e non relativista come nei tempi bui che luce non conoscono. Ciò è evidenziabile, ovvero il pensiero forte, nei suoi viaggi raccontati sulla vita sia di Paolo che di Gesù.
Fragilità e certezza. Due punti di partenza. Eterno e infinito. Due punti di arrivo.
Perché questo?
Scrive San Tommaso d’Aquino: “L’ultimo fine della vita umana è la visione di Dio”. Allora qui si incontrano la filosofia dell’umanismo e la teologia cristologica. Infatti è il “Cantico delle Creature” che pone una tale dimensione nella quale ci si rispecchia.
Senza il valore dell’eternità nessun concetto avrebbe più senso. Si incontrano il cercare e il trovare e interagiscono. Nella vita inquieta del cristiano vale l’osservazione che Kafka scrisse nel 1916: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato”.
Siamo in quel cammino del mendicante al quale facevo riferimento con Don Giussani e al quale rimanda l’immagine di Giovanni Paolo II.
Ma è il ibro di Benedetto è il libro di una esistenza cristiana profonda. Attraversato completamente dalla consapevolezza metafisica in un tempo in cui la guerra dichiarata ai cristiani dal mondo Ottomano investe una gravissima geo-esistenza. Una guerra dichiarata contro la tradizione della cristocentricità. Ratisbona resta una testimonianza di coraggio e vvirtù.
Gli strumenti cattolici attuali sono debolissimi.
Saremo islamizzati? La nostra temperie è il vissuto estremo di uno scontro.
Benedetto sapeva benissimo che
si scontrano due modelli di cultura e due paesaggi di civiltà in una fase in cui la distinzione tra Cattolici e Cristiani è ben consistente.
Il viaggio non smette. Ma noi cristiani in Cristo poniamo come principio fondamentale la Tradizione. In questi tempi dolorosi non dobbiamo mai smettere di essere testimoni di Cristo. Ma dobbiamo soprattutto saperlo testimoniare. Nel mistero dell’incontro e dell’infinito il Cristo rivelante. Lungo quale strada percorrere il cammino? Resta l’interrogativo ma abbiamo bisogno di vivere nella Profezia.
Così Maria Zambrano, che Benedetto conosceva bene: “Il sapere delle cose della vita è frutto di lunghi patimenti, di lunga osservazione, che ad un tratto si condensa in un istante di lucida visione. Tale sapere si rivela dietro un evento estremo, un fatto assoluto, come la morte di qualcuno, la malattia o la perdita di un amore”. Il problema si pone con molta gravità, oggi. Benedetto è la cristianità nella tradizione. In quella tradizione in cui il mio viaggio si fa rivelante!
Perché Benedetto XVI è rimasto papa fino alla morte? Egli sottolinea: “Possiamo nel silenzio della ‘notte oscura’, ascoltare tuttavia la Parola. Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’Amore” (2013). Non vanno dimenticate le parole di questo grande Pontefice pronunciate nel momento della sua andata via dal Soglio di Pietro: “Chi crede si affida completamente a Dio e per questo non teme di perdere nulla, avendo Lui come ricchezza”.
Perché tutto ciò? Il suo saluto sta in questa benedizione: “Dio è amore. Ma l’amore può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi”. Il bosco e la foresta hanno lame di luce soltanto nella fede in Dio. Cosa ci resta? Ciò che disse sempre Benedetto: “Oggi la barca della Chiesa, col vento contrario della storia, naviga attraverso l’oceano agitato del tempo. Spesso si ha l’impressione che debba affondare. Ma il Signore è presente e viene nel momento opportuno. ‘Vado e vengo a voi’: è questa la fiducia dei cristiani, la ragione della nostra gioia”.
Ed così che Benedetto comprese e dialogò con l’Assoluto:
«Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte. In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all’inizio dell’Apocalisse: egli vede il Figlio dell’uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: “Non temere! Sono io…”». Un viaggio nell’assoluto che è Cristo.

Autore

nato in Calabria. Scrittore, poeta, italianista e critico letterario. Esperto di Letteratura dei Mediterranei. Vive la letteratura come modello di antropologia religiosa. Ha pubblicato diversi testi sulla cristianità in letteratura. Il suo stile analitico gli permette di fornire visioni sempre inedite su tematiche letterarie, filosofiche e metafisiche. Si è dedicato al legame tra letteratura e favola, letteratura e mondo sciamanico, linguaggi e alchimia. È presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”.