• 27 Luglio 2024

C’è un dato preoccupante che sfugge agli analisti e ai commentatori politici, non meno che agli intellettuali. La permeabilità dell’Italia, più che in altri Paesi europei, all’odio sociale e civile.

Da tempo abbiamo la percezione che la nostra società sia attraversata da un sentimento di invidia, ma sarebbe meglio dire, livore, che provoca diffidenza, intolleranza e,  nella migliore delle ipotesi, indifferenza per i problemi del prossimo. I sentimenti peggiori sembra si stiano affermando surclassando analoghi stati d’animo che con l’affermazione della “società affluente” si erano manifestati negli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso, gli anni del “riflusso” e dell’individualismo esasperato, dell’edonismo volgare e della distruzione del sentimento comunitario.

Comunichiamo il peggio, insomma, ed esprimiamo rancori e risentimenti che diventano addirittura terreno di coltura di movimenti politici. I quali ci sguazzano come mai prima, sollecitando gli istinti peggiori della gente alla ricerca di rivalse inspiegabili. Di conseguenza si afferma la tendenza da parte di forze partitiche ad assecondare un pauperismo che è la quintessenza del “cattivismo”, per il quale l’aspirazione non è dare a chi non ha, ma togliere a chi sta piuttosto bene allo scopo di  livellare verso il basso le condizioni sociali. E così si spiega l’avversione al produttivismo, agli investimenti pubblici e all’incentivazione di quelli privati, alla negazione dell’abbassamento delle tasse, all’adozione  della cosiddetta flat tax.

Il “rancore”, insomma, che il  Censis evidenziò nel suo “Rapporto sulla situazione italiana del 2017”, è dilagato in questi anni ed è il sentimento che caratterizza marcatamente gli italiani e dal quale discende  appunto la  “cattiveria”.

Dal quel documento, infatti,  emerge un Paese avvilito, più povero e più invecchiato non soltanto anagraficamente. Potremmo sottoscriverlo oggi:  “Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive”. Il problema dell’immigrazione, tutt’altro che affrontato con la lucidità che meriterebbe, eccita gli animi, con la sollecitazione interessata e determinante di alcune forze politiche, come se l’Italia fosse il Paese che ne soffre di più in Europa, quando sappiamo bene che altrove la situazione è molto più allarmante  e pone problemi sociali e di convivenza gravidi di maggiori tensioni.  Il 63% degli italiani vede in modo negativo l’immigrazione da Paesi non comunitari, mentre per i Paesi membri dell’Unione europea l’avversione scende al 45%.

Cifre che rimandano allo sperimentato fallimento del multiculturalismo e alla “separatezza” del mondo musulmano verso il quale gruppi di influenza consistenti si mostrano arrendevoli culturalmente fino a spazzar via simboli e credenze della nostra religione per non “offendere” chi professa una diversa fede. Il pericolo dell’islamizzazione è dovuto più che all’espansività degli immigrati arabo-islamici, alla negazione da parte delle istituzioni e delle agenzie di orientamento culturale e formativo della nostra identità cui si accompagna il gravissimo gap demografico che vede l’Italia agli ultimi posti in Europa per prolificità.

E’ questa la ragione di fondo, non evidenziata da nessuna indagine, per cui quasi la metà degli italiani è pessimista sul futuro del Paese e nutre diffidenza nei confronti degli altri.

Non aiutano a stemperare il « cattivismo diffuso» che favorisce l’amplificazione di una sorta di «sovranismo psichico» foriero di incomprensione tra gli stessi italiani. Al punto che rispetto al futuro, buona parte degli italiani è pessimista perché guarda all’avvenire con delusione e paura.

Un quadro desolante e problematico che rimanda alla  gestione della cosa pubblica e soprattutto dell’educazione delle generazioni post-sessantottesche secondo risibili modelli progressisti secondo i quali le “magnifiche sorti e progressive” sarebbero state infinite. La questione dei valori è stata sottovalutata al punto che si sconta nelle micro-comunità, oltre che nel più vasto contesto sociale, una tabe che soltanto fino a venti anni fa veniva individuata come prospettiva quasi fantascientifica.

Una società malata, priva di riferimenti umani e identitari, votata al profitto a scapito degli altri, insensibile alla vicinanza comunitaria e sterilizzata spiritualmente e culturalmente è destinata alla decadenza. Le culle vuote e l’assenza di aspirazioni sintetizzano un declino di fronte al quale, con raccapriccio, vediamo classi dirigenti insensibili procedere verso il vuoto.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.