• 27 Luglio 2024

La verità è desolata. Essa si rivela nella solitudine. Perciò negli spazi angusti, affollati è più facile imbattersi nella menzogna. Le città imprigionano la luce; il deserto la libera. E qui l’anima vaga negli infiniti spazi, battuti dal vento, senza incontrare resistenze, lacerando il velo del pericolo, diventando corporea. La fisicità si purifica davanti all’incanto dell’ignoto e si annulla compenetrandosi nell’Infinito possibile e percepibile. La poesia di sabbia e di pietra che si para davanti, fino a dove arriva lo sguardo, si scrive nel cuore dove l’Assoluto celebra il suo rito. E si svela il tormento che ci assedia quotidianamente: l’assenza della purezza. Di contro, nelle sabbie del Sahara o di Atacama, ai due poli opposti della Terra, l’incanto dell’essenziale, la seduzione della forma geometricamente perfetta, la pulizia di una creazione intoccabile perché rischiosa si fondono nella raccolta di immagini primigenie custodite inconsapevolmente dentro di noi. Nel deserto finalmente sappiamo vedere, riacquistiamo la vista perduta. Nello Zarathustra si legge: «Da sempre i veridici, gli spiriti liberi, hanno abitato il deserto, ne sono stati i signori». E non era la nostalgia d’infinito che faceva capolino nei pensieri di Nietzsche solcando il suo piccolo regno di Silvaplana. Piuttosto la consapevole appartenenza a un modo altro, neppure sfiorato, del quale il deserto è la metafora poetica e religiosa. Un tempio senza barriere. Lo aveva compreso Erodoto, lo hanno saputo da sempre gli arabi. E tra l’uno e gli altri, i Padri del deserto, mistici inarrivabili, ne hanno fatto tra il Terzo e il Quinto secolo dopo Cristo, la loro dimora, patria di spiriti vaganti alla ricerca dell’Incommensurabile, del Misericordioso.

Spingendo lo sguardo nel cielo più luminoso che è dato vedere, i Padri incontrarono Dio e vissero il deserto, da eremiti o da cenobiti, al solo scopo di esaltarsi nella mortificazione della carne, riconoscendo l’essenziale e praticando, tra le pietre, uno spiritualismo esaltato ed esaltante, fuori misura secondo alcuni, cui si deve la costruzione del cristianesimo eroico, esemplare, imitabile.

I Detti tramandati sono opera del deserto e soltanto là potevano fiorire. Il coraggio li faceva affrontare l’ignoto sapendo che il deserto poteva essere il loro sepolcro, ma non prima di aver provato la grandezza della solitudine e l’abbandono dei pregiudizi. Non so se ancora oggi il deserto richiami atmosfere metafisiche di questo genere. Nella migliore delle ipotesi, forse, è una sfida per avventurieri alla ricerca di emozioni forti. E neppure si avvedono di profanarlo con le loro spericolate gimcane tra sassi che conservano memorie di civiltà che li hanno lambiti quando non vi si sono sporadicamente insediate: torri di fango e mattoni, cittadelle di pietre e di paglia, fortezze come avamposti a difesa da pericoli percepiti come imminenti e attesi da un tempo che sfiora l’eternità, testimoniano la longevità del Sahara, da Dakhla, ai margini dell’Atlantico, alle oasi in prossimità di altri deserti e, dunque, di altre storie. Quando Heinrich Barth attraversò il Messaq e si fermò sconcertato davanti all’«Apollo garamantico» comprese immediatamente che lì la civilizzazione greco-mediterranea aveva lanciato la sua sfida all’ignoto e aveva conquistato le anime di quei popoli, come aveva constatato molti secoli prima Erodoto. Se la mano dell’uomo aveva inciso, con levità, il suo richiamo a un dio nelle pietre sahariane, vuole ben dire che lo spirito non conosce confini e vaga e si posa là dove vuole, preferibilmente nelle aree più desolate dove il contatto con la divinità è più naturale, più semplice, immediato. Il deserto è una regione sacra. E quando si dice che cresce dentro di noi per significare l’inaridimento di vite vissute male, si bestemmia. Magari crescesse in ogni essere umano: le menti e i cuori sarebbero meno frastornati. Chi ha conosciuto bene il deserto, ne ha apprezzato, appunto, la valenza religiosa, l’intrinseco misticismo che lo pervade, la cui manifestazione crudele, scarnificata è soltanto l’apparenza sotto la quale c’è ben altro. Per esempio, un sentimento di immedesimazione con il creato che noi, i civilizzati, abbiamo perduto.

Lawrence d’Arabia, nel 1921, scrisse l’introduzione allo straordinario libro di Charles M. Doughty, Arabia deserta, “reportage” di un giovane medico e poeta inglese che nel 1876 intraprese un lungo e avventuroso viaggio nei luoghi preclusi a un europeo.

In quell’introduzione leggiamo: «La religione del deserto è un retaggio. L’arabo non le attribuisce grande valore… Raggiunge questa intensa sublimazione di se stesso in Dio chiudendo gli occhi al mondo e a tutte le complesse possibilità latenti nel suo animo, che soltanto la ricchezza o la tentazione potrebbero portare allo scoperto… Per l’arabo del deserto non c’è gioia maggiore della rinuncia volontaria. Trova il piacere nell’abnegazione, nel sacrificio, nell’autocontrollo… Il suo deserto diventa una ghiacciaia spirituale, in cui si conserva in eterno intatta ma mai migliorata l’unicità di Dio». Ma c’è una “intimità” che il deserto preserva, per quanto possa sembrare inverosimile. In esso si sistemano gli amori impossibili, quelli che non si possono vivere e si affidano al cielo sahariano. Ma tra le dune dalle forme femminili, a ridosso di contrafforti battuti da venti impetuosi che lasciano rose di pietra una volta passati, ho anche incontrato tanto di quell’amore possibile in un popolo che al deserto ha affidato la sua sopravvivenza, da restare incantati. I saharawi, scacciati alla loro terra, vagano nel deserto algerino come pellegrini stanchi, ma gonfi di speranza, dopo quasi trent’anni di esilio, portando con dignità la loro tragedia che il mondo non vuol vedere. Tra quella gente dolente e orgogliosa, accolto dal sorriso dei bambini e dagli occhi dolcissimi di giovani donne che mi offrivano tè e datteri, ho avuto la percezione di che cosa vuol dire nutrire un senso profondo dell’appartenenza, riconoscere le proprie radici, rivendicare la dignità di una scelta difficile. Mentre mi veniva incontro un bambino, lacero ma sorridente, mi rafforzavo nell’idea che al riconoscimento della sacralità della persona non vi è alternativa se si vuole sfuggire alla tentazione demoniaca di far valere una qualsivoglia “volontà di potenza” a detrimento dei valori primari. E tutto questo in un angolo di uno sterminato deserto, dove arrivava il suono lacerante di un oud accompagnato da un darbuka, mentre un griot raccontava storie saharawi che commuovevano la piccola, dolcissima dottoressa in attesa, davanti al suo improbabile ospedalino, di un altro bambino ammalato che sapeva di non poter curare. Il deserto è l’amore di tutti quegli occhi e di tutte quelle musiche e di tutte quelle grida e di tutte quelle bandiere senza patria. Dove ogni aurora è preghiera e ogni tramonto ringraziamento.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.