• 27 Luglio 2024
Editoriale

È in arrivo la bella stagione. La nudità si affaccia dovunque uno spazio raccolga adepti osservanti ossequiosamente. E le membra si impossessano delle menti. Con l’affacciarsi della primavera, diventa quasi obbligatorio mettersi in forma.

E L’ossessione del corpo ci costringe nella prigione del narcisismo.

Avendo perduto altri riferimenti non ci rimane che la materialità più prossima per riconoscerci in un qualche ideale. Il nostro ideale di contemporanei avvizziti è la cura estenuante, l’esibizione volgare, il linguaggio indecente (e a volte indecifrabile) del corpo. Al di fuori di esso, perfino la parola se non le è correlata, nulla esiste perché niente è così tangibilmente vero.

E allora alla religione del corpo ci siamo votati come fedeli della liquidità sociale nella quale sono già naufragate tutte le idee che trascendono la materialità più nobile perché più nostra: quella delle membra che si muovono, che giacciono, che si fanno ammirare, che suscitano repulsione, che accendono i desideri, che spengono gli entusiasmi, che elevano fino all’inverosimile la vertigine del potere di sopraffare altre membra.

Insomma, il corpo è tutto. È il demiurgo della modernità. È il luogo-evento nel quale si celebrano i trionfi della creazione e del disfacimento, della morte e della resurrezione, del dinamismo e della atarassia. È simbolo e rappresentazione del successo. Soltanto nel corpo la vita assume un senso, ha un significato.

E il corpo, con la sua finta maestosità, copre le asprezze delle nostre esistenza edulcorandole con la trasfigurazione della bellezza nel possesso carnale.

Perciò tutto si ricompone nel corpo che parla da solo, senza bisogno di suoni o di parole. La sua espressione è connaturata alla sua essenza. Perciò la pubblicità lo usa, l’uomo e la donna lo commercializzano, l’industria dei consumi se ne serve. La sensualità si esalta ancor prima che la rovente estate dia il via alla corsa alle finte trasgressioni che si consumano ovunque il corpo si possa far vedere fingendo non essere visto. E ammicca e invoglia e ingolosisce. È una macchina, un meccano. Senz’anima, ormai nell’apparenza delle realtà che riproduce all’infinito. Non è ovviamente il corpo dei santi, dei poeti, degli eroi, degli artisti, dei tiranni, dei mendicanti, degli ingenui, dei puri di spirito e dei malfattori. È soltanto il corpo: una cosa. Anzi, la Cosa.

Nei corpi massacrati non si rileva nient’altro che materia inutile. Nei corpi spogliati non c’è che induzione alla depredazione. Nei corpi cosparsi di unguenti e stesi al sole o manipolati da abili ricostruttori si vede soltanto la personificazione dell’abbandono.

Costeggiano i percorsi di immortalità apparenti i corpi deprivati di profondità, come carte che assorbono i nostri incubi e i nostri sogni ai margini di strade che svelano il potere della seduzione, ma non lo porgono al viandante che uccide i suoi stessi desideri nell’affannosa corsa verso la violazione del mito che, se anche dovesse riuscire, non lo appagherà perché il corpo voluto, inseguito, ottenuto è il corpo di tutti, è tutti i corpi del mondo fissato in uno stereotipo che prevede un tanto di appeal, un tanto di nudità, un tanto ancora di sorriso ebete, e per finire un richiamo costante, incessante, nauseante ad abusare di quel che il cartellone pubblicitario, la televisione, il cinema, internet propongono generosamente.

Ma è l’illusione che illumina i nostri desideri. Pensateci: il corpo è morto. Noi diventiamo automi quando riduciamo noi stessi alla materialità che dovrebbe riempire e appagare i nostri giorni e le nostre notti.

Camminiamo tra cadaveri sparsi, inanimati proprio perché ai corpi non si chiede altro che di mostrarsi, indipendentemente dallo scopo. E se una volta era un Tempio, come si diceva, oggi non è neppure un pagliericcio.

L’offesa che rechiamo a noi stessi si riassume nell’assuefazione agli stereotipi carnali che sembra dominino ogni cosa: la politica, l’economia, la cultura, l’arte, la guerra (ma questa è storia antica).

E il possesso del corpo, dei corpi, della più grande quantità di corpi è segno riconoscibile di un potere tanto più forte quanto più si levano dal sottosuolo le grida di corpi infangati, prostrati, profanati, desiderati, amati, usati, gettati, usurati.

C’era una volta la bellezza del corpo. Raccontava di dèi ebbri e innamorati; raccontava la solitudine splendente di mistici assetati di eterno; raccontava di poeti erranti per le vie dello spirito e dell’amore; raccontava di soldati e cavalieri a difesa di civiltà ancestrali; raccontava di guerrieri e di fanciulle, di vecchi e di vecchie, di ladri e di benefattori. Dove sia finita quella bellezza dei corpi che erano torri eburnee, non lo so, ma credo non lo sappia nessuno. Ritornerà? Forse; si spera perlomeno. Ma quando la caduta diventa fragorosa, non sappiamo più dove rifugiarci per non vedere, per invocare la cecità, per desiderare che il sole si spenga, che la luce manchi, che la disperazione ci soffochi. Poiché tutto è più accettabile della rassegnazione alla fine della bellezza. E il corpo, per lo più si è ridotto oggi nel canto funebre che neppure un miracolo potrebbe tramutare in sinfonia.

A meno che Dio non riappaia e ridia al corpo la sontuosa eppure discreta anima che s’è assentata per prendersi gioco di esso, per vedere, di nascosto, che cosa ne sarebbe stato lasciandolo.

Ecco: noi ora lo sappiamo. Noi che leggiamo i giornali, che guardiamo la televisione, che andiamo al cinema, che frequentiamo i teatri, che stiamo in mezzo alla gente, che ci nutriamo di pubblicità. Noi sappiamo che i corpi sono apparenze. Sbiadite immagini una volta seducenti, come il volto di chi li ha creati. Cosa resta degli occhi in cui non si legge un’emozione? Che effetto fa una bocca serrata nel silenzio? Che significato ha il gesto che richiama a un banale consumo che potrebbe essere sollecitato da altri elementi, ma non necessariamente da un corpo? Nulla. Ed è la nullificazione della persona diventata oggetto che diventa essenziale alle nostre vite frastornate nelle quali niente è al posto in cui dovrebbe essere. Ci guardiamo dentro e non riusciamo più a leggerci nulla. E ci domandiamo: ma come, fino a qualche tempo fa parlavo perfino con me stesso e adesso vedo il vuoto dentro di me? Già, per riconoscerci abbiamo bisogno dello specchio. E quel che vi vediamo riflesso è ciò che gli altri vogliono vedere di noi. Tutto, ma non la bellezza.

Sarò fuori dal tempo, ma continuerò ad amare il corpo come tabernacolo dell’anima. E lo onorerò. E pregherò per lui. E lo sosterrò quando sarà debole. E alla fine chiederò che su di esso scenda una benedizione.

E, spero, che l’ultima immagine che passerà davanti ai miei occhi sia quella di una bellezza infinita che mi porti laddove le immagini si affollano e gli incontri si infittiscono. Dove le anime accarezzeranno i corpi che hanno abitato, finalmente riconoscendoli per quello che sono. Finirà allora la pandemia che ci assedia e che ci ha rubato la bellezza. Se Dio vorrà.

Il Riposo, opera di Anna Capoccetta

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.