
Nei primi giorni di settembre del 1943 l’esercito italiano occupava ancora i territori della ex Iugoslavia, della Grecia, di alcune isole greche e della Francia meridionale. Truppe che se la dovevano vedere soprattutto con i partigiani sloveni, serbi, croati, greci e francesi che combattevano l’occupante italiano e tedesco per liberare i loro paesi. Fatti di violenza non mancarono da una parte e dall’altra, soprattutto nei territori della Slovenia e della Croazia, dove gli esiti dei trattati di pace della Prima Guerra Mondiale e una politica di denazionalizzazione perseguita dal fascismo, avevano fatto nascere rancori e odio nei confronti del nostro paese.
L’8 settembre venne annunciato l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati anglo-americani. Fu una scelta inevitabile: l’Italia non era più in grado di sostenere la guerra. Le truppe alleate erano ormai sul territorio nazionale da luglio a seguito dello sbarco in Sicilia; molte città venivano continuamente bombardate; i sacrifici della popolazione furono pesanti; la maggioranza del paese, le alte gerarchie militari e buona parte dei ceti dirigenti erano convinti che la guerra fosse ormai perduta e che la scelta di uscire dal conflitto fosse legittima. Ma l’operazione dell’armistizio fu mal gestita. Il maresciallo Badoglio, divenuto Presidente del Consiglio dei Ministri dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio, giocò su due tavoli, assicurando ai tedeschi la continuazione della guerra al loro fianco e contemporaneamente trattando l’armistizio con gli alleati anglo-americani.
A Dino Grandi, Presidente della camera dei fasci e delle corporazioni, Badoglio disse: “Terrò a bada i tedeschi e riuscirò a fare la pace con gli Alleati” : Una manifestazione di vanteria, di superficialità, oltre che di inutile doppiezza, perché non finalizzata a preparare un piano utile a difendere l’Italia dalla prevedibile aggressione tedesca. Anche il re Vittorio Emanuele III, a cui si guardò da alcuni settori della società nella speranza di avere un riferimento certo, mostrò una grave inettitudine con la sua partenza per Brindisi, illudendosi di salvare con la sua persona l’istituzione monarchica e la continuità dello Stato. La monarchia, che per scelta del sovrano in carica si era assunta gravi responsabilità storiche, aprendo la strada al fascismo, tollerando l’alleanza con la Germania nazista, dichiarando la guerra nel 1940, violando ripetutamente lo Statuto. La questione andava risolta diversamente, come avvenne il 2 giugno 1946 con il referendum tra monarchia e repubblica. Ma torniamo al nostro argomento. Dunque, il 9 settembre il capo dello Stato, il re Vittorio Emanuele III e Badoglio, Presidente del Consiglio, abbandonarono Roma, seguiti dallo Stato maggiore dell’esercito e dai ministri, lasciando dietro di loro il caos: nessuna precisa disposizione su come fronteggiare i tedeschi, che cominciarono a occupare militarmente l’Italia, come da loro programmato fin dal maggio precedente, grazie alla predisposizione di un piano di invasione voluto da Hitler nel caso di un collasso dell’alleato italiano. Quale fosse la situazione negli alti comandi militari ce lo dice Paolo Monelli nel suo libro “Roma 1943”. “Certo il comando del corpo d’armata quella mattina era quello che in gergo militare si dice un ‘casino’. Ufficiali correvano qua e là, smarriti, raccontavano a chiunque arrivasse che il generale Carboni era scappato da Roma… squillavano i campanelli di tutti i telefoni, comandi che non trovavano risposta dallo Stato maggiore e volevano ordini e chiedevano informazioni”.
Ora, di fronte a questo stato di cose, di fronte alla viltà e al venire meno ai propri doveri degli alti comandi militari, non sorprende che i reparti dell’esercito si sciogliessero come neve al sole. E, se per soldati e ufficiali di stanza in Italia poteva essere, in determinate condizioni, relativamente più facile trovare un rifugio presso parenti, amici, cittadini generosi per scampare ai rastrellamenti tedeschi, determinati a disarmare e imprigionare i militari italiani, per quelli che, invece, operavano nelle zone di occupazione, molto poche furono le occasioni per sfuggire alla cattura. Per loro si aprì un periodo drammatico di internamento nei campi di concentramento in Germania e in Polonia. Fu quello il periodo più buio della nostra storia nel corso del Novecento con il crollo dello Stato e delle forze armate, un forte smarrimento morale e politico, l’economia in ginocchio, le città devastate dai bombardamenti e i gravi disagi della popolazione.

Questo è il contesto storico in cui si consuma la drammatica storia di mio padre Leandro che fino al termine degli studi universitari conobbe una vita normale, tipica di molte famiglie borghesi e qualche privilegio.
Poi, improvvisamente la tragedia, il servizio militare, il corso allievi ufficiali, la nomina a sottotenente di complemento di fanteria, il dramma della guerra, il trasferimento in Grecia, a Rodi, come zona di operazione militare, la cattura da parte delle FF.AA. tedesche il 12 settembre 1943, la deportazione in un carro piombato in Polonia, dopo un viaggio allucinante durato diciassette giorni con poco cibo e poca acqua (circa 13.000 militari morirono durante questi trasporti coatti) e infine il trasferimento nei campi di prigionia di Siedlce in Polonia, Bremervörde, Bergen Belsen e Wietzendorf in Germania.
Nei campi di concentramento rimase diciannove mesi e due Natali a venti gradi sottozero, con pochi stracci addosso e lontano dagli affetti più cari. Fu liberato dalle Forze Alleate ormai allo stremo (pesava solo trentotto chili) quando ogni speranza sembrava svanita, tant’è che i suoi carcerieri, con ferocia inaudita, lo avevano perfino costretto a scavare la fossa dove sarebbe stato seppellito dopo la fucilazione, perché questa era la fine che gli era stata brutalmente preannunciata. Dopo pochi giorni fu miracolosamente liberato dagli inglesi; un’esperienza quindi, la sua, terrificante e una salvezza raggiunta solo “in extremis”.
In una delle ultime lettere scritte a mia madre, dopo la Liberazione, le confidò che se fosse trascorso ancora qualche giorno, non ce l’avrebbe fatta. Infatti, negli ultimi tempi non riusciva neanche a salire un gradino a causa dello scadimento generale delle sue condizioni di salute.
Per una coincidenza eccezionale (non so il perché, né quando, né come) conobbe Hitler che, passando in rassegna gli “schiavi” del campo, si soffermò incredibilmente proprio su di lui, chiedendogli le sue origini. Anche il fratello Luigi fu deportato in Germania ed é sorprendente che i due siano riusciti anche a incontrarsi a liberazione avvenuta.
Nei campi di concentramento fu trattato in modo disumano, fuori da qualunque convenzione internazionale e dalla tutela della Croce Rossa. Una volta rimpatriato, ad attenderlo trovò solo un cancello sul quale si appoggiò disperato, dando sfogo a un pianto ininterrotto, perché i bombardamenti degli Alleati anglo-americani del 26 maggio 1944 avevano ridotto in un cumulo di macerie il villino, dove era vissuto fino al giorno della partenza per l’arruolamento.
Il padre, quell’amato padre, a cui tante volte si era rivolto piangente in preghiera nel campo di prigionia, era morto da più di un anno senza che nessuno lo avesse informato, e anche la sorella Tetina non c’era più, morta anch’essa di una grave malattia 4 mesi dopo il bombardamento, durante il quale rimase seppellita diverse ore sotto le macerie della casa distrutta. Tutto era andato perduto e attorno solo testimonianze di morte.
Per una coincidenza insolita e tuttora avvolta nel mistero, io ho perduto entrambi i nonni lo stesso giorno, o forse addirittura contemporaneamente. La mattina del 26 maggio 1944 tra le nove e cinquanta e le dieci e dieci, Tivoli, la mia città natale,venne pesantemente bombardata dalle Forze Alleate e, per uno strano destino, entrambi i miei nonni disattesero l’avvertimento delle sirene che invitavano la popolazione a raggiungere la salvezza negli appositi rifugi.
Il mio nonno paterno, Evaristo, fu colpito in pieno da una bomba che distrusse il villino dove lui si trovava. Fra tutte le persone da me contattate per conoscere la verità, nessuna è stata in grado di fornirmi notizie completamente attendibili. Taluni mi raccontarono, e questa è la versione ufficiale, che il corpo non fu mai identificato con certezza, tanto che i poveri resti furono raccolti assieme a quelli di altri disgraziati nella fossa comune del cimitero di Tivoli. Altri fornirono un’altra versione, non meno drammatica, e cioè che il corpo, in realtà, fu rinvenuto e sistemato alla meglio nella bara dalla moglie, che si sarebbe poi allontanata per alcuni minuti in cerca di persone disposte a traslare la bara al cimitero. Alcuni testimoni riferirono che durante quei minuti di assenza, ignoti estrassero il corpo di mio nonno dalla bara per far posto a un altro cadavere, e quindi mia nonna al suo ritorno trovò la bara occupata da un’altra salma. Sempre la stessa fonte racconta che Evaristo fu poi “ammassato” insieme ad altri cadaveri senza nome su un carretto trainato da un cavallo in direzione del cimitero, dove fu seppellito nella fossa comune e lì attualmente si trova. Insomma, qualunque sia la versione certa è stata una storia verosimilmente agghiacciante.
Talvolta, ho la vaga sensazione che qualcosa di mio nonno sia rimasta ancora qui in casa, magari proprio qui vicino a me che sto scrivendo di lui, e allora penso: Beh! Vabbè, meglio qui a casa che al cimitero, e questa, conclusivamente, è l’unica versione che, seppur fantasiosa, mi sento di condividere. Del resto, pur non avendolo mai conosciuto, mi sono sempre sentito idealmente legato a lui a causa del suo grande amore per la musica.
Conservo con grande cura decine di libretti d’opera originali e mio padre mi raccontava che quando ascoltava musica, non voleva essere disturbato da nessuno per nessuna ragione al mondo, e che durante l’ascolto amava circondarsi di una fitta nuvola di fumo, il fumo del sigaro. Se qualcuno osava avvicinarsi a lui in quei momenti di totale estraneità dalle cose terrene, poteva aspettarsi di tutto, compreso il lancio di oggetti contundenti. Fu avvocato e grande umanista.
Immagino la sua disperazione, il non senso improvviso di tutto quello che gli stava capitando, la nostalgia lacerante del ricordo, il puzzo strisciante della morte che invadeva le luride camerate invase dai topi, il colore dall’acqua putrida che inondava le immonde baracche ricoperte di fango, le plumbee giornate invernali, la cupezza degli ambienti, il gelo paralizzante. Vedo le luride brandine che i nazisti pretendevano che fossero perfettamente ricomposte ogni mattina al solo scopo di umiliare l’internato. Insomma, sono dentro la sua tragedia e compio un processo psichico di rivisitazione della mia storia, mettendo per la prima volta in discussione tutti quei convincimenti che mi sembravano acquisiti e tutte quelle certezze che consideravo immodificabili.
Mentre scrivevo, rivivevo i tanti contrasti che mi avevano diviso da lui e mi sono spesso immedesimato in alcuni suoi atteggiamenti, modi di essere, in certe sue intransigenze, perfino in alcuni suoi stati d’animo e insofferenze nei confronti del mondo esterno, nel rifiuto dei luoghi comuni, delle banalità, nell’assoluta mancanza di ipocrisia, nel desiderio talvolta di isolarsi da tutto e da tutti.
Ma, a dispetto della sua durezza, ho con lui vissuto anche momenti felici, ho coltivato passioni importanti, ho fatto viaggi bellissimi, ho ricevuto consigli di vita, ho praticato sport, ho appreso alcuni nobili sentimenti come l’amore per gli animali. Ho imparato a condannare i soprusi perpetrati nei loro confronti dagli umani, ho condiviso la solidarietà per gli esseri più indifesi, per i più umili, per i diseredati e un modo diverso di sentire la vita che non riscontravo negli altri.