Un saggio di Massimo Donà

Massimo Donà, filosofo, musicista e strumentista di primo livello, ha dedicato un numero considerevole di volumi all’esegesi teoretica della produzione musicale di artisti del secolo XX, tra essi  Miles Davis, i Beatles e i Rolling Stones. Non si è occupato, sic et simpliciter, della sola musica “alta”, colta (cfr., in tema, il suo Filosofia della musica, 2006) ma anche di musica considerata, dal pensiero corrente, “leggera”. Donà ha contezza che la distinzione tra cultura “alta” e “bassa” è l’esito, al pari degli altri dualismi che parcellizzano il pensiero e la vita, del primato del concetto impostosi nella filosofia europea. In ultimo, eccolo a confrontarsi con una delle icone della musica, non solo italiana, degli anni Settanta e Ottanta, Lucio Battisti. Lo fa nel suo ultimo libro, La filosofia di Lucio Battisti, comparso nel catalogo Mimesis. Un testo che induce nel lettore il medesimo effetto magico-incantatorio prodotto delle atmosfere aleggianti nei brani del musicista di Poggio Bustone. Il filosofo veneziano mostra di avere una conoscenza non comune tanto del repertorio di Battisti, quanto della letteratura critica in argomento, che egli interpreta con persuasività d’accenti.

Il libro è aperto da un prologo e si sviluppa in quattro capitoli nei quali vengono attraversate e discusse le fasi più rilevanti della produzione del Lucio nazionale, dagli esordi alla collaborazione con Pasquale Panella. Sostanzialmente, Donà legge Battisti quale esempio mirabile del processo de-costruttivo della “forma-canzone”. In questo senso, il compositore avrebbe, di fatto, realizzato in musica, la de-costruzione che Derrida auspicava per il “sistema” in filosofia. Anche per questa sola ragione, i testi e le musiche del nostro, risultano meritevoli di un’esegesi teoretica. L’autore de, La filosofia di Battisti, ricostruisce, in prima istanza, le suggestioni culturali che, a partire dagli anni Sessanta, investirono anche il nostro paese. Esse furono vento innovatore mirante a liberare gli uomini da qualsivoglia staticità, in quanto: «Per rimanere veramente fermi […] bisognava correre il più velocemente possibile» (p. 17). Bisognava imparare: «ad abitare il “paradosso”» (p. 17), la contraddizione che anima ogni vita. Tutte le cose, stante la lezione di Calvino, sono, di fatto, intrascendibile parzialità, nelle quali si dice il medesimo non originario.

Le “canzoni”, in quel frangente, subirono una metamorfosi radicale: in forza dell’influenza della musica afro-americana, custodivano in sé diversi moduli ritmici, il tre quarti e il quattro quarti. Lo si evince anche da 29 settembre, uno di primi brani del reatino. Si tratta di un racconto musicale breve in cui sono messe in scena da Mogol, in modalità impressionistica, due giornate caratterizzate da un tradimento, non si sa se onirico o reale. Il brano ha andatura sincopata e spiraliforme, non presenta alcuna strofa distinta dal ritornello ed è aperto dalla voce di uno speaker radiofonico. Parole e musica sono trascrizione  dell’avvento del post-moderno: da quel momento, nulla sarebbe più stato come prima nell’arte e nella vita. La copertina, del resto, riproduceva un’immagine di Mario Schifano, interprete della pop art. Di lì a poco, con Dolce di giorno e Per una lira, Lucio sarebbe diventato, in prima persona, interprete delle proprie composizioni, proseguendo lungo la strada della de-costruzione. Donà si intrattiene sui rapporti che Lucio strinse con musicisti dell’epoca, con le case discografiche, introducendo il lettore in tutte le produzioni dell’artista. Per mostrare il tratto filosoficamente rilevante di Battisti, è opportuno soffermarsi sull’esegesi donaiana di, La luce dell’est, un brano, sotto il profilo poetico-musicale, davvero magistrale.

Fu composta nel 1972 e produce sull’ascoltatore una vera e propria ipnosi sonora. In essa, Lucio si mostra capace: «di essere decostruttivo anche nei confronti del proprio anelito decostruttivo» (p. 65). Egli non fu, quindi, servo neppure della propria libertà e non si vietò di tornare a precedenti modelli compositivi. Con, Amore e non amore, Battisti: «sembra aver preso coscienza del fatto che, in verità, nelle cose tutte gli opposti vivono […] inseparabili» (p. 56). È diventato empedocleo, parla di: «un “gioco” di forze contrastanti […] Forze che dividono e uniscono […] E così fanno essere tutto quel che è » (p. 58). Per questo, la sua musica pretende di valere in uno, come “bella” e   “popolare”.Il tema degli opposti fa mostra di sé anche sulla copertina di, Giardini di marzo, a dire il gioco, perpetuamente in fieri, di luce e ombra. Battisti, successivamente, guardò alla musica latino-americana. Iniziò a farlo con, Anima latina, prima del viaggio in Sud America, e proseguì, così, a contaminare il suo dire con sonorità etniche, a ibridare la musica elettronica con il sitar, animato da consapevolezza hegeliana: aveva ormai acquisito chiara contezza che l’andare avanti è sempre un tornare indietro, come si evince dai suoni e dai testi di, Orgoglio e dignità.

L’iter di Battistisi concluse con la collaborazione con il poeta ermetico Panella, a seguito della chiusura del rapporto con Mogol. La critica ha finora ritenuto le opere di questa fase creativa di Lucio, le meno riuscite. Donà ribalta tale giudizio. Nella produzione musicale Battisti-Panella, infatti, si fanno ancor più evidenti le implicazioni filosofiche: «il nostro torna a mirare gi opposti; e li vede su un ponte che “connette”, ma non determina e neppure significa» (p. 107). Tutto diviene astratto, la parola si fa musica. L’attualità, il quotidiano, sono anagogicamente ripensati al fine di produrre nell’ascoltatore disincanto per la condizione umana. L’artista scopre che l’aporia è nella vita stessa, insegna agli uomini a sopportarla serenamente attraverso l’arte, quale novello Leopardi. Lucio vede nelle cose quel medesimo che l‘approccio empirico è incapace di trascrivere. Il nostro è divenuto “scrittore di luce”,  fotografo (cfr. M. Donà, Filosofia della fotografia, 2025). Non ci sono messaggi da lanciare, non c’è più nulla da capire, come seppe l’Evola dadaista. Non è casuale che il suo ultimo album si intitolasse, Hegel. In esso, di fatto viene messa a tema l’arché che ogni autentico poietes prova a sperimentare e a vivere. Battisti è ancora lui: «pur nella differenza radicale rispetto al passato» (p. 134). La de-costruzione della “forma-canzone” lo ha condotto alla non canzone, al frammento, in modalità profetica e inusitata.

Tale lacerto è, si badi, custode dell’arché. Questa, in sintesi, la lezione del Battisti musicista-filosofo di Massimo Donà.

Massimo Donà,  La filosofia di Lucio Battisti, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 137, euro 14,00.