• 3 Dicembre 2024
La mente, il corpo

Siamo tutti più o meno depressi, ma non lo ammettiamo. Di fronte alle aspettative utopistiche o irrealizzabili ci deprimiamo.

Davanti alle delusioni personali e collettive cadiamo in depressione.

Assediati dalla sfiducia ci lasciamo travolgere dai pensieri più neri.

La nostra vita privata, per quanto possa essere brillante e soddisfacente sotto il profilo affettivo o professionale non è immune dall’aggressione della depressione. Basta infatti che ci affacciamo dalla finestra del nostro “privato” per scorgere un universo, vasto o limitato non ha importanza, che ispira depressione.

La politica, l’economia, i costumi la acuiscono. Chiediamo a chi ci capita a tiro come si senta: il più delle volte la risposta è una smorfia accompagnata da una considerazione che assomiglia ad un referto clinico dell’anima.

Ci sentiamo dire, e noi stessi diciamo a chi pone la medesima domanda: «Tutto bene, considerando il contesto, questi tempi che viviamo, le incertezze che ci tengono in apprensione». È l’ammissione della depressione spacciata per normalità. Ma sappiamo bene che “normale” non è la condizione nella quale ci trasciniamo.

Beninteso, c’è anche chi per carattere tende a nascondere questa patologia divenuta collettiva, ma non può, tuttavia, fare a meno di scorgerla negli occhi degli altri e chiedersi, magari senza rivelarlo neppure a stesso, quasi per proteggersi, se anche lui non si trovi nello stato che pubblicamente nega.

La depressione è una forma di malattia, gravissima oltretutto, che contagia le società più che i singoli. Questi, anzi, interiorizzano le contraddizioni ed i conflitti al punto di sentirsene parte.

E, dunque, soggetti attivi della depressione che assume connotazioni talmente gravi da portare alla disgregazione delle comunità umane.

Se ne parla poco di questo risvolto della crisi economico-finanziaria abbattutasi sull’Occidente fino alla sua più che probabile distruzione, come se il silenzio dovesse esorcizzare la gravità della decadenza. Invece sarebbe bene premunirsi, psicologicamente e culturalmente, in vista di un lungo e precario attraversamento del deserto.

Non ingannino i lustrini che infiocchettano la tragedia che si dispiega attorno a noi: come occidentali stiamo subendo, consapevolmente per giunta, gli effetti di una catastrofe ampiamente da noi stessi approntata. Non siamo davanti ad una congiuntura economica sfavorevole come tante altre che si sono succedute nell’era moderna.

Ma innegabilmente immersi in quel tramonto nel quale spariscono, poco alla volta, stili di vita e comportamenti, certezze esistenziali e credenze culturali che ritenevamo stupidamente non usuratili. Ed avendo ritenuto di condizionare un tale patrimonio di civiltà alle esigenze determinate dalle logiche economiche, dunque essenzialmente dal profitto e dall’avidità, ci troviamo adesso immersi in acque paludose dalle quali appare impossibile uscire.

Da qui la depressione sociale ed individuale. La percezione della fine di un modello di vita che non regge all’urto del depauperamento delle risorse ed all’attacco indiscriminato alle ragioni vitali degli esseri umani, invadendo le esistenze di bisogni fittizi ed innaturali sui quali lucrare, è inevitabile che generi depressione. Nel passato grandi civiltà si sono estinte per l’impossibilità di fronteggiare i meccani infernali che il potere politico-economico aveva messo in campo. Divorate dall’apparente benessere coltivato sfrenatamente, sono state soppiantate da altre civiltà, spiritualmente meglio corazzate.

Che cosa ci attende a noi spettatori impotenti delle convulsioni che vanno in scena nel mondo globalizzato?

Diventare cinesi o indiani o brasiliani non vuol dire molto.

Quelli che si profilano come i nuovi padroni del mondo non sono portatori di modelli culturali diversi da nostri.

L’omologazione che ha reso uniforme il Pianeta ha ormai un’unica fede: il nichilismo. E da questa profondità non si esce con le ricette economiche. Il secolo che ha compiuto da tre anni il secondo decennio ricordando l’attacco spettacolare e criminale all’Occidente avvenuto l’11 settembre 2001, ma sarebbe meglio dire all’umanità, non sarà “americano”, come si dice sia stato quello passato, ma avrà altre caratteristiche geo-politiche e strategiche. Non cambierà tuttavia la sostanza. A Pechino, a Singapore e a Mumbai si ragiona come a Wall Street. Durerà un secolo l’egemonia orientale? Che differenza fa? È l’impotenza degli assoggettati che dovrebbe preoccupare.

Invece la depressione cresce immaginando le rinunce alle quali ci si dovrà adattare. E, possiamo purtroppo starne certi, non saranno quelle voluttuarie alle quali lo spirito del tempo ci ha condannati ad essere dipendenti ad uscire dal nostro irreale universo, bensì quelle primarie. Un segno distintivo della perdita di senso e della gaia apocalisse che si sta addensando sui nostri destini.

Cosa volete che significhi per un cittadino comune l’aumento del differenziale tra i Btp italiani ed i Bund tedeschi, il famoso e famigerato spread che nel recente passato ci ha tenuti incatenati ad un maligno incantesimo?

Con inquietudine ci si domanda nelle famiglie non tanto se si riuscirà a mettere in futuro le stesse pietanze in tavola, ma se ci si potranno permettere le decine di gadget dei quali sembra non si possa fare a meno. Si crescerà di meno, insomma?

E l’interrogativo, pur piuttosto oscuro, fa tremare dopo il telegiornale padri e madri, mentre i figli colgono nell’inquietudine dei genitori i segni di qualche possibile disadattamento prossimo venturo, pur non comprendendone la portata.

Depressi anche loro che immaginavano di regalarsi l’ultimo telefonino alla moda o l’immancabile iPod per stemperare la loro solitudine.

Depressione? Bisognerebbe studiare una scienza nuova: la depressione, appunto, derivante dal primato dell’economia. Si scoprirebbe forse, una volta per tutte, che i mali del nostro tempo ce li siamo inventati noi. Esattamente come la depressione propriamente detta, quella che comunque talvolta illuminava i poeti e faceva piangere gli innamorati. Altro che spread.

Il tramonto dell’Occidente o la crisi della civiltà non erano iscritti, un tempo, nelle incomprensibili tabelle borsistiche, ma nelle menti e nei cuori di uomini che immaginavano il tracollo di un mondo, ma almeno accompagnato da un’aura di nobiltà. Si finisce, invece, da schiavi del denaro. Miseramente. Clochard della modernità indecente davanti alla quale ho l’impressione che perfino Dio si sia voltato da un’altra parte.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.