• 3 Dicembre 2024
Editoriale

I dati dell’Istat periodicamente certificano la continua e costante decrescita della popolazione italiana. Da anni a questa parte i decessi superano le nascite: nel 2019  fu impressionante registrare   un saldo  negativo di 212 mila unità, dovuto alla differenza tra 647 mila decessi e 435 mila nascite. Fu  il dato più basso fino ad allora  mai registrato nel nostro Paese. Poi la caduta è diventata ancor più rovinosa.

Il tasso di fecondità, si leggeva in quel  Rapporto dell’istituto, è di 1.29 figli per donna, largamente insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale stimato a 2.1 figli per donna. Le culle vuote, secondo questo trend ed in assenza di politiche volte all’incremento della natalità, saranno destinate ad aumentare. Una prospettiva inquietante.

Gli studiosi Luca Cifoni e Diodato Pirone nel recente saggio La trappola delle culle vuote (Rubbettino Editore) hanno sottolineato come nel 2021 in Italia sono nati 399.000 bambini contro i 740.000 nati in Francia. Gli italiani fanno meno figli, ma soprattutto – a causa del crollo delle nascite nei decenni passati  – sono pochi i genitori potenziali. E giustamente osservano che siamo   finiti in quella che chiamano “la trappola demografica”, una spirale nichilista che  comporta un’economia più debole, imprese poco innovative, pensioni insostenibili, assottigliamento delle scuole e la desertificazione di vasti  e territori. Insomma, il declino. Funeste prospettive spengleriane, raccolte da Richard Khoerer negli anni Venti, si stanno bruscamente e lividamente manifestando.

L’aborto di Stato

Da ricondurre oltre che al deficit di progettualità e al neo-egoismo, giustificato dalle coppie con la difficoltà di programmare le loro esistenze tenendo insieme il piano familiare e quello lavorativo, anche da quella che viene ritenuta  la causa principale dell’inverno demografico, vale a dire  l’aborto di Stato. Una piaga che colpisce sempre di più le giovani donne le quali, in assenza di una cultura della maternità, si sbarazzano di gravidanze indesiderate con una leggerezza che fa rabbrividire. Purtroppo tale dato è sistematicamente ignorato dalle istituzioni politiche e sociali e perfino il quotidiano dei vescovi Avvenire, quando si occupa di demografia evita accuratamente di dedicare una sia pur minima attenzione al problema, frutto di un laicismo culturale che non è possibile sottacere a fronte delle molte manifestazioni pro life che si tengono nel mondo e che raramente vedono la presenza delle gerarchie ecclesiastiche.  

Dal  1978 ad oggi grazie alla legge 194 sono stati perpetrati innumerevoli omicidi nella convinzione che il feto non è vita. Da oltre quarant’anni, dunque, lo Stato  finanzia uno degli strumenti più odiosi, anzi inaccettabili, che incidono sulla denatalità e l’impoverimento morale, culturale e civile della nazione qual è l’abito, salvo poi, come viene fatto quando se ne parla in tema di crisi della società italiana, sottolineare l’insostenibilità della decrescita demografica, nonostante a nessuno venga in mente di condannare esplicitamente l’omicidio di Stato che con leggerezza viene accettato da famiglie e istituzioni che ne fanno dirittura una bandiera di libertà: una contraddizione inaccettabile.  E così l’opinione ritiene l’aborto non più un arbitrio intollerabile, né confessionalmente un “peccato”, semplicemente perché lo reputa come  “diritto acquisito”. Nel nome del cosiddetto politically correct secondo cui la libertà di scelta domina la morale e ciascuno può disporre come vuole del proprio corpo oltre che di quello dell’altro, del nascituro per esempio.

Ma nel problema della natalità, unitamente a quanto rilevato  c’è anche “ un narcisismo di massa – come sottolineò su La Stampa qualche anno fail fondatore del CENSIS Giuseppe De Rita –  che fa temere al ceto medio un progressivo impoverimento. Non si è più disposti a fare sacrifici per proiettare in avanti, attraverso i figli, le proprie speranze. Il crollo delle nascite nell’ ultimo decennio sarebbe stato ancora più verticale se l’Italia non avesse goduto dell’ effetto compensatorio della fecondità delle straniere”.

Ma questo effetto non può risolvere, neppure parzialmente il problema. Esso è legato a contingenze che innescano processi difficilmente governabili e dunque danno luogo ad una instabilità etnico-culturale e religiosa che non si può negare. Soprattutto in rapporto al tasso molto alto di fecondità dei Paesi dai quali gli immigrati provengono rispetto all’Europa dove la convivenza è sempre più difficile, mentre la multiculturalità sulla quale l’illusione di integrare popoli diversi si fondava, fa acqua da tutte le parti.

La questione, dunque, è tutta interna a Paesi come l’Italia che hanno il respiro corto nel pensare al loro domani (ci auguriamo che il nuovo Ministero della famiglia che si occuperà prevalentemente di natalità inverta la rotta). È dunque, come dice sempre De Rita: “La crisi ha pesato su tutto, anche sulla voglia di avere figli. Ma non è detto che le coppie sarebbero più propense ad allargare la famiglia se migliorassero gli interventi pubblici. E’ un problema più profondo, di mentalità e di dittatura dell’ io. Una società che non sa più dire “noi” non fa figli. Si è perso l’ equilibrio nei rapporti sociali necessario per stare bene insieme, uno accanto all’ altro. Per uscire dall’ inverno demografico occorre rimboccarsi le maniche. Servono umiltà, volontà di fare, capire, migliorarsi. Altrimenti è la decadenza”.

Il problema della decadenza

Ed è alla decadenza che bisogna riandare per comprendere a pieno il dramma socio-culturale che la crisi demografica ci mette davanti. Una vera e propria “peste bianca”, come il grande storico Pierre Chaunu, nel 1976 la definì valutando gli esiti catastrofici della rinuncia occidentale alla natalità.

La politica demografica è stata nel corso dei secoli, e soprattutto nell’antichità (vista come protezione dell’etnia), la priorità delle classi dirigenti che fondavano sull’incremento della popolazione la forza dei loro Stati sia per quanto riguardava il reclutamento militare (difesa della città o dell’Impero) sia per ciò che concerneva la forza-lavoro specialmente in agricoltura e nella costruzione delle imponenti difese murarie, oltre che in tutte le opere di edilizia al servizio della comunità, dai canali alle strade. Opere gigantesche che ammiriamo nelle nostre prossimità come  i possenti acquedotti ed i maestosi templi glorificanti la sacralità degli Dèi.

Tutto era possibile purché masse di esseri umani fossero disponibili ad impegni gravosi sotto il profilo fisico e capaci  sotto quello  progettuale. L’incanto dell’antichità giunto fino a noi rimanda, per chi riesce a coglierlo, alla politica della natalità raccomandata da Platone, narrata da Esiodo e ricordata nel nostro tempo da Hans F.K. Guenther. Una sorta di epica per la quale il numero costituiva la potenza e l’arte del discernimento s’incaricava di ingentilirla con l’apprendimento delle fonti del sapere, sicché immaginando le decine di migliaia di operai, progettisti, scultori, pittori ed inventori di macchine geniali per la costruzione della dimora dell’imperatore Adriano a Tivoli, ad esempio, viene in mente che se Roma non avesse potuto disporre di una massa di manovra, efficiente, prestante ed intelligente, noi non avremmo avuto la ricostruzione in miniatura  nel cuore dell’impero del porto  di Alessandria sul quale Adriano giocava con l’acqua ricordando i suoi giorni felici in compagnia di Antinoo, mentre un sistema di spazi concentrici, sotterranei e sopraelevati offriva lo spettacolo di una città chiusa, inviolabile e guardata a migliaia di inservienti che proteggevano la pace dell’imperatore intento ad imprese militari non meno che a costruzioni inimmaginabili duemila anni dopo, come il Vallo di Adriano. Tutto era possibile con l’intelligenza e le braccia. La costruzione della “Città antica”, suggestivamente descritta da Fustel de Coulanges, rimanda allo sforzo di uomini e donne che si succedevano per decenni nel completare ciò che non era mai completo, senza soluzione di continuità perché i figli seguivano l’opera dei padri e dopo di essi ne venivano altri a misurare il tempo nella rappresentazione di ciò che nasceva per essere eterno.

Lo spopolamento delle nostre contrade

Oggi che non si fanno più figli e quando si fanno non vengono quasi mai accolti come una benedizione, impoveriamo le nostre contrade popolate da meccani mossi da pochi e sparuti individui che chissà da dove colpiscono perfino popolazioni inermi (altro che “tempeste d’acciaio”, vili tempeste invisibili apportatrici di morte piuttosto) senza farsi vedere, lontani migliaia di chilometri. Ed ai meccani affidiamo le nostre fragili esistenze in tutti i campi perché non c’è abbastanza gente disponibile: tutto è predisposto affinché le braccia, le mani, le dita, gli occhi, le labbra impercettibilmente si muovano, tocchino, sfiorino una macchina dalle sembianze mostruose per approntare qualsiasi opera di cui l’uomo ha bisogno per vivere la sua vita aliena nella gigantesca Heliopolis consegnataci dal pauperismo intellettuale illuministico e dalla religione della negazione della grandezza che officia il “pensiero unico” dal quale discende e ci consegna la credenza secondo la quale  più le culle sono vuote, meglio si sta. Ma le vuote culle sono bare piene di niente. Esse certificano il trionfo dell’anemia demografica, come chiama la catastrofe della denatalità la  studiosa, biologa e nutrizionista Cristina Coccia.

La desertificazione delle culle

In un libro che altrove ed in altri tempi, probabilmente, avrebbe acceso discussioni e riflessioni sul nostro destino e sulla nostra inevitabile estinzione, Coccia descrive L’anemia demografica (Edizioni Ar) con la freddezza di un anatomopatologo  che si applica a sezionare i residui della civiltà e scopre che l’anemia, malattia del sangue che comporta una riduzione patologica dell’emoglobina, e dunque una ridotta capacità sanguigna di trasportare ossigeno, è il morbo che ha colpito la fertilità. Anzi, ha determinato l’infertilità. Ha provocato la desertificazione delle culle. Ha isterilito i ventri delle giovani donne e l’incapacità dei maschi a nutrire l’ambizione di trasmettere un’eredità, dai cromosomi al nome.

L’Italia (ma il fenomeno è europeo) è un aggregato di cellule stanche, nella migliore delle ipotesi pigre, incapaci, sbandate. “Nel nostro sangue demografico – scrive la Coccia – si è verificata una lacerazione del tessuto sociale che ha provocato, nel tempo, un distacco tra le componenti che mantenevano il nostro gruppo etnico abbastanza coeso e sano”. L’ emorragia demografica rischia di provocare l’estinzione, a lungo andare, del nostro popolo, della nostra cultura, della nostra memoria. Una catastrofe della quale – ma non ci sorprende – la politica non si occupa o finge di occuparsene soltanto “economicamente” immaginando che la “sostituzione” con gli immigrati risolva i problemi. Ma anche questi, una volta a contatto con l’ideologia che “uccide i popoli”, il consumismo, si adatteranno all’occidentalismo che nega la riproduzione e non faranno più tanti figli quanti ne fanno ora. E poi non tutto si può ricondurre ai valori economici.

È vero che la denatalità è figlia dell’economicismo, del carrierismo, dell’egoismo, della negazione di se stessi nell’acquisizione di materialità oggettive che impediscono la cura e l’attenzione allo sviluppo di un figlio, ma non è estranea una sorta di patologia della rinuncia a perpetuarsi. Il determinismo materialista, l’abortismo criminale (quando non ricorre una patologia accertata) come forma di eliminazione di un problema che potrebbe inficiare la leggerezza dell’esistenza, il rifiuto a immaginare l’avvenire sono gli elementi inescusabili del declino demografico che, come scrive Coccia , “molti europei sono de-generati perché non hanno più cura della vita, della generazione, della salute dei propri popoli. Accettando passivamente tutto quanto proviene dall’esterno, dagli altri, non si riesce a riconoscere il vicino come proprio simile né ad avvertire il senso di appartenenza ad una stirpe”.

Le responsabilità oggettive del “pensiero unico”

Il “pensiero unico” è responsabile della denatalità. Almeno indirettamente. L’immiserimento spirituale e morale ha provocato l’omologazione verso il basso. Il pensiero critico si batte da posizioni minoritarie, ma per quanti sforzi si facciano è difficile togliere una play station dalle mani di un ragazzo per mettergli davanti un testo di poesie. Perché il sistema è intrinsecamente modellato affinché l’ambizione  di una vita da  fellah o da mimicry, come diceva Spengler, è quella che gli occidentali hanno adottato avendo come fine l’happy end, l’immortalità di una serata ricca di gadget come droga e sesso a basso costo. Rinunciare a questa prospettiva per assumere la funzione di vir, in senso classico, è piuttosto complicato. Le strutture formative che aderiscono al pensiero unico inoculato, diffuso, espanso  dai padroni del potere, da coloro che devono vendere prodotti standardizzati perché l’ugualitarismo ideologico fiorisca favorendo l’egualitarismo finanziario e globale, non hanno interesse a differenziare l’offerta.

Come possono giovani in età da mettere su famiglia immaginare che c’è un domani da costruire e lo si può fare soltanto procreando piuttosto che spiaggiarsi sull’inutilità di una vita che si consuma giorno dopo giorno senza nessuna speranza? Il massimo è il soggiorno in sontuosi resort ai Caraibi o nel Pacifico per dire di aver nuotato in acque calde in mezzo ai pesci. Dove i pescecani non appaiono o se si mostrano lo fanno sotto sembianze gradevoli.

Cifre agghiaccianti

Dal 1 gennaio del 2019, ci informa la Coccia, la popolazione ammontava a 60 milioni e 391 mila residenti, oltre 90 mila in meno rispetto all’anno precedente (con una diminuzione dell’1,5 per mille). La popolazione cittadina è scesa a 55 milioni e 157 mila unità. Nel 2018 abbiamo avuto 449 mila nascite (9 mila in meno dell’anno precedente), mentre i morti sono stati 636 mila, 13 mila in meno rispetto al 2017: non perché la vita si è allungata, ma per il semplice fatto che le malattie si sono cronicizzate grazie alle scoperte farmacologiche. E l’incidenza sulla qualità della vita è tutta da ripensare, anche in termini economici.

L’Italia ha l’indice di natalità più basso d’Europa. Gli aborti sono 87 mila all’anno, le famiglie con figli appena 11 milioni; quelle senza figli 14 milioni. Valutando questo dati, nel 2100 la popolazione italiana si stabilizzerà sui 49 milioni di abitanti; la Nigeria che ne conta oggi 197 milioni, ne avrà 752 milioni; il Bangladesh l’anno prossimo conterà 170 milioni di abitanti, ma nel 2050 ne avrà 202 milioni e nel 2100 si stabilizzerà intorno ai 169 milioni di unità. Cifre agghiaccianti. L’Europa sarà sul punto di sparire tra pochi decenni. È un problema di risorse che si pone; è l’ecosistema che dovrà dare delle risposte; è l’ecologia che rimanda quantomeno ad una perplessità della quale bisogna tenere conto. E poi la diffusione delle megalopoli, con tutto quel che comportano in termini di vivibilità, lo sradicamento dalle campagne – fenomeno ampiamente in atto – unito ad una qualità della vita assolutamente deficitaria sotto il profilo igienico-sanitario, mentre non si tiene conto della diffusione delle malattie che s’innestano sul nostro già precario patrimonio genetico, dovute all’alimentazione soprattutto, che generano obesità infantile, diabete, malattie cardiovascolari, sono problemi davanti ai quali non si può retare inerti o assumendo posizioni che hanno l’effetto di una camomilla scaduta.

Insomma, mangiamo male e viviamo peggio, respiriamo ai limiti della sopportazione e non ci accorgiamo che malattie fino a poco tempo fa ritenute debellate per sempre riappaiono non tanto “misteriosamente”.

Un male incurabile?

Come sottrarci alla decadenza?

Se gli altri, gli stranieri, gli immigrati, coloro che vivono in altre dimensioni,  anche male oltretutto, figli ne fanno e sono destinati a diventare massa di manovra e di conquista inevitabile di spazi e di ricchezze, il problema è tutto italiano, europeo, occidentale perché siamo noi ad aver perso il filo che tiene unita la vita. Abbiamo negato il passato distruggendo la memoria; abbiamo abolito il presente soltanto perché esiste nell’attimo in cui compiamo qualsiasi atto che soddisfi le nostre vanità o ingordigie; abbiamo scacciato dal nostro universo il futuro dicendo che non ci appartiene e che con noi morirà ogni cosa perché questo è il risultato della cultura dominante, del “pensiero unico” che si fonda sull’attimo. Dunque i figli degli altri saranno maree umane che ci sommergeranno senza nessun inganno e neppure malevolenza dal momento che noi abbiamo rinunciato a perpetuarci, a vivere per chi verrà. Il legame generazione si è spezzato. Il filo si è interrotto. Riprenderlo, a meno di rivolgimenti epocali, sarà pressoché impossibile.

Siamo attanagliati da un  male tutt’altro che oscuro che lascia vuote per ora le culle l’Occidente, un fenomeno che ne muterà i connotati.

Le nascite regrediscono, i popoli muoiono, le civiltà s’inabissano nelle profondità della storia. Senza questa consapevolezza non c’è speranza. Una rivoluzione culturale potrebbe dare qualche speranza. Almeno credo. E spero.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.