• 27 Luglio 2024
Editoriale

I governi e, in generale, la politica, si trovano sempre di fronte a due ordini di problemi: quelli di lungo periodo, la cui soluzione passa attraverso provvedimenti di prospettiva, magari da correggere di fronte alle contingenze dell’ora, e quelli che vanno risolti nell’immediato, quelli che incidono da subito sulla vita dei cittadini (è invalsa l’abitudine di definirli “emergenziali”).

A complicare le cose, sta la constatazione che spesso le tempistiche si accavallano e un’urgenza respinge indietro nelle agende legislative e operative quella che fino a ieri era un’emergenza a cui provvedere senza indugi; senza contare le interconnessioni fra una questione e l’altra.

Alla categoria delle questioni strutturali appartiene senza dubbio quella dei flussi migratori, in particolare, per la nostra Italia, quelli provenienti dall’Africa, continente abitato da oltre un miliardo e quattrocento milioni di persone – in prevalenza giovani – in continua espansione demografica e flagellato da carestie e desertificazioni, da instabilità politiche e cripto-neo-colonialismo (specie cinese), da crisi economiche e sanitarie pandemiche.

Parlavamo di interconnessioni: è evidente che i punti critici sopra elencati all’ingrosso, si collegano al nostro perdurante calo demografico, per ovviare al quale s’impongono (da troppo tempo invano!) provvedimenti di lungo periodo, fin qui insufficienti, a dir poco: per “riempire le culle” occorrono infatti generazioni, mentre i vuoti di personale nei vari comparti dell’apparato produttivo vanno colmati subito. Per soddisfare le esigenze dell’ora, viene invocato, specie da parte imprenditoriale, l’ampliamento dei flussi migratori; ma resta il mistero di un paese dove si richiedono 500.000 occupabili allogeni, mentre si contano, secondo “Il Sole 24 Ore”, 2 milioni di disoccupati e tre milioni di “scoraggiati”, cioè di persone che neppure cercano più un posto di lavoro. Viene il sospetto che all’origine di queste anomalie, cioè non solo di gente che rifiuta un lavoro, ma di coppie che si sottraggono alla genitorialità, vi sia un diffuso costume che rifugge dalle difficoltà della vita, dall’assunzione di responsabilità, dallo spirito di sacrificio. Dunque il problema non starebbe tanto nella sfera dell’economia, bensì in quella del costume e dei codici morali.

Ma torniamo alla questione dell’emigrazione, in bilico fra problemi strutturali ed emergenze del momento. Sulla carta, le ricette sono sotto gli occhi di tutti e riscuotono consensi in larga parte dei pur contrapposti schieramenti politici e della stessa Unione Europea: varare accordi con i paesi africani da cui muovono i flussi migratori, da un lato per selezionare in partenza coloro che hanno concrete possibilità di essere accolti dignitosamente e magari integrati; dall’altro, per concordare i rimpatri e comunque combattere i nuovi negrieri, il tutto in presenza di accordi fra gli Stati dell’Unione Europea. Questo, nell’immediato. A più lunga scadenza, ma con avvio indifferibile dei processi, fornire a quei paesi le risorse necessarie per attenuare almeno la morsa delle crisi di varia natura – economica, alimentare, sanitaria, politica – che sono all’origine dei flussi migratori incontrollati (in Italia, si parla di un “piano Mattei”, sulla falsariga dello storico “piano Marshall”).

Va da sé che un progetto di tale portata non può essere realizzato da un solo paese e che l’Unione Europea dovrebbe assumervi un ruolo chiave, ridimensionando gli egoismi eterogenei dei suoi componenti (quelli che aspirano ad egemonie più o meno velleitarie, quelli che temono invasioni atte a turbare equilibri interni precari, quelli che semplicemente si chiudono nei propri confini). Pia illusione!

Sta di fatto che, aldilà delle misure tampone di oggi (ad esempio, l’abolizione della “protezione speciale” o, sull’altro versante, l’istituzione di corridoi umanitari, lo snellimento delle pratiche burocratiche per la verifica degli aventi diritto, o la riapertura dei canali d’immigrazione regolare) è ormai indifferibile l’adozione di provvedimenti legislativi atti a promuovere gli auspicati incrementi demografici. Vasto programma, avrebbe detto il generale De Gaulle, un programma che comprende vari capitoli, non pochi dei quali non incontrano le sensibilità di molti dei cittadini elettori (e per qualcuno sono addirittura da rigettare).

Provate a dire che gli auspici di Confindustria di allargare le maglie della selezione, per portare centinaia di migliaia di nuovi lavoratori allogeni – provenienti da altre culture, privi dei requisiti di specializzazione occorrenti per essere inseriti nell’apparato produttivo e caratterizzati da un elevato tasso di fecondità – forse risolvono problemi delle imprese nell’immediato, ma preludono ad una sostituzione etnica nel lungo periodo, e sarete crocifissi.

Il fatto è che nozioni come quelle di confine, tradizione, identità sono oggi messe al bando e demonizzate dal pensiero unico imperante, che parte dalla globalizzazione e si consolida con la “cancel culture”. In questo quadro, un particolare non trascurabile è dato dalla difesa della lingua italiana, altra impresa di lungo periodo, ignorata o messa in ridicolo nel “discorso pubblico” (che banalità evocare la fascistissima “coda di gallo” per indicare il cocktail!); come se non fosse possibile difendere l’italiano e imparare l’inglese, contemporaneamente.

E pensare che nella Francia, spesso guardata come esempio, questa esigenza era stata avvertita fin dai tempi di Francesco I, per poi essere ribadita dalla legge Toubon del 1994 (in sintonia, del resto, con la sensibilità popolare). Certo, si tratta di mettere mano, fra l’altro, alla scuola e all’università, istituzioni afflitte da ripetute riforme peggiorative, valorizzando gli Istituti di Cultura e curando maggiormente i rapporti con le comunità italiane all’estero; ma se mai si comincia…

Comunque, ben venga l’inglese (anche se si esagera, non solo nella cartellonistica pubblicitaria e nel linguaggio corrente, nelle scuole, nelle università e nella cinematografia, ma perfino nel gergo legislativo e burocratico). Questa egemonia linguistica, che agevola e accompagna trasformazioni di costume spesso problematiche, servirà forse ad ovviare alle esigenze dell’ora, ma nel lungo periodo metterà a repentaglio le nostre tradizioni e la nostra identità. E allora, possiamo concludere queste note con una citazione “pop”: “Il giorno della fine non ti servirà l’inglese”. Così cantava Franco Battiato, nella sua “Il Re del Mondo”.

Autore

Nato a Napoli, vive a Roma, dove svolge un’intensa attività pubblicistica. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani e riviste, alcune delle quali ha contribuito a fondare. Ha pubblicato romanzi, poesie e saggi, l’ultimo dei quali, “Giornale di un viaggiatore ordinario” è stato pubblicato da Tabula fati (Chieti 2022).