• 3 Dicembre 2024
Editoriale

Sembra attuale invece è vecchissima, anzi fuori tempo massimo. Una ricetta d’altri tempi spacciata per nuova di zecca, in realtà rinvenuta tra le macerie di una riforma costituzionale vecchia di oltre vent’anni e ripudiata persino dai suoi stessi autori. Parliamo dell’autonomia differenziata e del suo obiettivo-ossimoro di ridurre il divario tra Nord-Sud nel momento in cui non fa mistero di voler, appunto, differenziare competenze, poteri e risorse tra regione e regione. Sull’argomento abbiamo già scritto dicendone peste e corna e non mancando di denunciare il clamoroso ribaltamento di ruoli tra chi oggi sostiene tale progetto dopo averlo fieramente avversato e viceversa. Una triste commedia egli equivoci e degli inganni, figlia del presentismo e della logica del giorno per giorno in cui annaspano un po’ tutti i partiti.

Prova ne sia che il centrodestra che oggi legittima il Titolo V made in centrosinistra allargando a dismisura le maglie di un regionalismo senza storia, oltre che rissoso e parolaio, è lo stesso che non ha esitato ad accentrare a Roma il coordinamento degli interventi destinati al Sud attraverso la creazione di un’unica Zes (Zone economiche speciali) in luogo delle otto – una per regione – precedentemente preposte a tale obiettivo. Una decisione impeccabile, almeno a parere di chi scrive, ma accompagnata da un movimento più scoordinato di quello di una mucca pazza. Non v’è infatti chi non si accorga come alla scelta di reductio ad unum delle Zes meridionali sia sottesa un’implicita sfiducia circa l’effettiva capacità delle regioni del Sud di attrarre investimenti sui rispettivi territori. Diversamente, perché installare a Roma la cabina di regia degli interventi destinati a Napoli, Bari, Palermo o Reggio Calabria?

A questo punto, delle due l’una: o il governo diffida dell’istituto regionale nel suo complesso, e allora non si capisce la scelta di potenziarlo ulteriormente attraverso massicce dosi di autonomia differenziata; o diffida solo delle regioni del Sud, e allora non si comprende perché il governo sostenga che anche queste trarrebbero vantaggio dal conferimento di nuove competenze piuttosto che – come pure autorizzerebbe a credere la scelta sulla Zes unica – dall’accentramento di poteri presso i palazzi romani. In ogni caso un problema c’è se al Nord il governo autonomizza mentre al Sud accentra. Non foss’altro perché così diventa arduo per chiunque farsi un’idea di quale sia il reale orientamento dell’attuale esecutivo di fronte alla “questione settentrionale” e a quella meridionale, atteso che nella stessa nazione non possono esistere parti di territorio che si organizzano per conto proprio e altri che necessitano di tutoraggio statale.

A meno che non si debba scorgere nell’ossimoro decisionale una difficoltà della maggioranza di ricondurre a sintesi la vocazione autonomista della Lega e la radice centralista della destra. Comunque sia, la clamorosa contraddizione tra Zes unica per il Sud e autonomia differenziata rappresenta una zona inesplorata nel dibattito politico, che invece andrebbe illuminata allo scopo di individuare con esattezza quale sia l’idea di Italia che anima e muove l’attuale maggioranza. Tanto più che anche l’ambizioso disegno di fare della nostra Penisola l’hub energetico dell’Europa proteso nel Mediterraneo e testa di ponte verso l’Africa, più volte ribadito dal premier Giorgia Meloni, mal si concilia con la possibilità di affidare in esclusiva alle Regioni, mercé il varo dell’autonomia differenziata, lo strategico tema dell’energia senza farne discendere effetti devastanti per il nostro sistema-Paese in termini di raddoppio dei livelli decisionali e di burocrazia.

A conferma che anche un lucido disegno strategico – e tale è quello appena ricordato – rischia di restare lettera morta se non sorretto da scelte adeguate e congruenti. Ma è proprio questo il prezzo che la politica, complessivamente intesa, paga al presentismo, alla logica del “qui ed ora”, priva tanto di profondità quanto di prospettiva. Ne troviamo traccia anche nel dibattito sul terzo mandato elettivo per i presidenti di regione, sul quale tanto la maggioranza quanto l’opposizione hanno evidenziato lacerazioni e contraddizioni. Ma è esattamente quel che succede quando le cose sono conseguenze dei nomi e non viceversa. Se invece che concentrarsi sulle regole e sul loro funzionamento ci si incaglia sul futuro politico di questo o quel governatore, è persino scontato che il terzo mandato cessi di essere una questione politica per striminzirsi a fatto personale. Non a caso se ne parla in riferimento al destino dei vari Zaia, Toti e De Luca e non in rapporto al tema del potere e agli sbarramenti elettorali necessari ad impedire ad un presidente di regione di trasformarsi in un satrapo. Ma tant’è: i partiti sembrano ormai disabituati a confrontarsi nel merito delle questioni, preferendo il più delle volte esibirsi in incomprensibili baruffe chiozzotte dove a perdere è solo la politica. E forse è proprio questo il vero nodo da sciogliere.    

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).