• 27 Luglio 2024

Come automi senz’anima, attraversiamo le angosce del nostro tempo segnato dallo spossessamento delle ragioni dell’essere e dal dominio della conservazione degli averi. Ci aggiriamo smarriti nelle megalopoli confuse, contraddittorie, violente alla ricerca del nulla o, nella migliore delle ipotesi, di un senso al nostro vagabondare. E soffermandoci davanti alle miserie che ci si parano davanti nelle forme più volgari o banali, non riusciamo a cogliere il significato della nostra presenza nel groviglio di indistinte suggestioni che da ogni angolo ci invitano a cedere. Ma noi non possiamo più cedere, non tanto perché votati, come per miracolo, al ripudio della modernità, ma per il semplice fatto che è la modernità stessa che ci respinge con le sue gravosissime richieste per accedere ai suoi richiami. Un controsenso, naturalmente, che tuttavia scandisce il tormento che accompagna il nostro peregrinare di occidentali cresciuti nell’adorazione di un benessere ritenuto eterno. Da qui la crisi che non è soltanto finanziaria, politica, civile, esistenziale. È essenzialmente manifestazione nichilistica della rottura tra l’essere e il dover essere, lo spezzarsi di un sogno su un sentiero improvvisamente interrottosi.

Noi che abbiamo fatto dell’“avere” un mito, anzi il “mito”, inspiegabilmente siamo stati svegliati dalla fragorosa caduta degli imbonitori che ci avevano raccomandato di non cedere alle lusinghe dello spirito, di tuffarci nell’avventuroso mare dell’avidità, di non ritrarci di fronte a profitti dei quali, con qualche timore, osservavamo le curve ascendenti e discendenti. Oggi siamo più poveri. E lo saremo ancora di più con il passare del tempo. E perfino del tempo saremo meno padroni. Per non dire di tutte le nostre azioni che non coincideranno con il piacere di sollievi innocenti e di passioni che con difficoltà potremo coltivare.

La crisi di cui si parla ha soltanto in apparenza contorni materici; in realtà è una crisi che si sviluppa dentro noi stessi chiamati a gettare alle ortiche le consolanti protezioni che il benessere ci assicurava. Potremmo defila, senza esagerare “crisi spirituale” alla quale le istituzioni preposte, cominciando dalla Chiesa cattolica, poco o nulla si danno pena nel contrastarla. 

Dovrebbe spaventarci l’austerità, come contrappuntò alla crisi spirituale? No: ci terrorizza. Perché dover rinunciare a tutto dopo averlo assaporato fino a restarne nauseati, è appunto terrorizzante. E scuote le certezze atrofizzate sapere che nulla sarà più come prima. Guadagni, consumi, dilapidazioni allegre, apparenza gioiosa che ha privato del piacere di riconoscere la sostanza di generazioni di donne e uomini occidentali i cui pensieri lunghi hanno finito per approdare sulle scogliere del disincanto. Oggi ci scopriamo nudi. Questa è la crisi. O la sua estetica, se si preferisce. È la rottura; la cesura con le abitudini; l’allargarsi di un divario tra le necessità reali e i bisogni fittizi. La caduta, insomma, dell’ideale moderno nel quale il sogno si è costantemente confuso con la realtà. E il tutto accade quasi nell’indifferenza, come se si dovesse compiere una fatalità. Senza neppure la consolazione di approdare alle estreme lande dell’eterno poiché non conosciamo la strada che a esse conduce dopo decenni di edonismo selvaggio accarezzato come il bene più prezioso. E, nonostante tutto, che cosa dicono i nostri governanti, della cui opinione potremmo fare tranquillamente a meno se non fosse per il non trascurabile particolare che dalle loro scelte dipendono i nostri destini? Ci saremmo aspettati un invito a rialzarci, a riprendere il cammino verso altri lidi, a mostrare la qualità umana di fronte alle intemperie. Abbiamo ascoltato soltanto incoraggiamenti a consumare di più, ancora di più. Tutto il consumabile anche se ben poco è rimasto. E ci siamo visti sbattere in faccia la povertà, la miseria, l’indigenza con qualche elemosina di Stato per riempire al supermercato carrelli colmi di disperazione e di disprezzo.

La crisi. Sì, morale. Poiché se il parametro della vita è il consumo, noi, senza saperlo perché nessuno ha pensato di fare un sia pur fantasioso decreto per dircelo, siamo già morti. Al sole dell’economia invadente, della finanza totalizzante, della politica immorale, della rassegnazione a

non essere privi di averi. La crisi si compie nelle pieghe dell’homo consumans che non sa apprezzare la moralità regale del dono; dell’homo oeconomicus la cui unica fede è il mercato e quando questo crolla a lui non resta che cercare riposo tra le sue macerie; dello sperperatore d’intelligenza che affida la sua anima (convinto peraltro di non averla) ai broker senza scrupoli i quali sono gli unici sciamani che la modernità riconosce. E si dispiega, la crisi, nell’individualismo egoistico che compra il tempo perché esso è denaro e lo getta in imprese che non gli sopravviveranno, a differenza di ciò che accadeva una volta, in epoche ormai lontane e dimenticate. Lo storico delle religioni di origine moldava, ma francese a tutti gli effetti, Charles Malamoud ha sottolineato che «la preoccupazione di dover rimborsare l’usuraio o il proprietario risveglia inevitabilmente l’angoscia che fa nascere nell’uomo il pensiero dell’ultimo creditore, la morte. Tutto si svolge come se i debiti contingenti e parziali che l’uomo contrae nel corso della sua esistenza non fossero altro che i sintomi o l’illustrazione del debito essenziale che definisce il suo destino». Di fronte alla precarietà della materialità del profitto, la maggior parte degli occidentali ha reagito come se si trovasse di fronte all’ultimo creditore. E da qui la sensazione di spaesamento e di disperazione. Chi ha cercato, e cerca, nella politica una qualche consolazione, si rassegni: non la troverà. Essa è stata piuttosto, non saprei quanto inconsapevolmente, mallevadrice della crisi. 

Osservò anni fa, in un libretto poco amato dagli ottimisti di professione, Serge Latouche, sociologo controverso, che «la scomparsa della politica come istanza autonoma e il suo assorbimento nell’economia fa ritornare lo stato di guerra di tutti contro tutti; la competizione e la concorrenza, leggi dell’economia, diventano ipso facto leggi della politica. Il commercio era dolce (secondo l’espressione di Montesquieu) e la concorrenza pacifica solo quando l’economia era tenuta a distanza dalla politica».

Nel mondo ridotto a mercato, e a un mercato di rottami oltretutto, chi può dire che la politica non ha avuto responsabilità, al pari della cultura, nel dispiegarsi di una crisi che non sarà frenata dalle misure dei governi, poiché la sua profondità raggiungerà le radici dell’animo umano?

Più che di sistemi economico-monetari, con tutta evidenza la  crisi è di civiltà. Non rendersi conto di questo dato di fatto non fa che acuire le contraddizioni della modernità. Dovrebbero rendersene conto tutti,ma in primo luogo  coloro che fingono un ottimismo infondato, senza neppure sospettare che portarlo stampato sul  volto e propagandarlo attraverso è un contributo significativo al dilagare della stupidità collettiva, il vero “segno dei tempi” nei quali siamo immersi.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.