Il Matese così come lo conosciamo oggi o almeno nella sua “ossatura” geologica formata da carbonato di calcio, e dunque la sua caratteristica di carsismo, o più semplicemente carsica, viene a formarsi tra i 145 ed i 66 milioni di anni fa. Tale carsismo ha permesso per milioni di anni all’acqua di penetrare il suolo, scavando inghittitoi, grotte, cunicoli sotterranei, ma soprattutto di creare le falde acquifere su cui le aree pedemontane in particolare siedono.
Lo stesso identico discorso vale per il gemello più piccolo del Matese, il massiccio del Taburno. Questo è stato senza ombra di dubbio l’elemento che ha caratterizzato la vita delle due areee le quali insieme comprendono circa 1500 chilometri quadrati di territorio, i quali si diramano sulle provincie di Campobasso, Isernia, Caserta e Benevento fino a confinare con la provincia di Avellino. Un’area vasta costituita in gran parte da un imponente vastità di boschi con nelle aree pedemontane a ridosso delle pianure ricchissime di acqua spesso sorgiva anche a quote importanti. L’acqua che è sempre stata una attrattiva per le forme di vita, poiché essa stessa vita, in queste aree ha stimolato gli umani non solo a ricercarla e vivere nelle vicinanze di questa, ma anche ad usare i corsi d’acqua come accampamenti durante le battute di caccia dove poi venivano macellati gli animali. Il Matese ed il Taburno anche se poco appariscenti sotto il profilo del sapere umano preistorico, hanno visto la frequentazione dei luoghi a partire dal Paleolitico, ovvero da circa 700.000 anni fa. Il ritrovamento di Isernia “la Pineta” è il macro umano della frequentazione dei territori citati che si esplica poi in una forma micro (per i ritrovamenti rispetto ad Isernia) fuori dall’area del sito di “Pineta”.
La presenza umana è dunque documentata dagli utensili e da altro materiale di lavorazione, per vari motivi abbandonati sul posto, che è possibile trovare in superficie spesso nei pressi di sorgenti o in luoghi dove si trova la materia prima per i fabbricati ovvero la selce. Fra le zone della Campania intensamente legate alla presenza dell’ uomo preistorico, il Sannio è come accennato il meno conosciuto ed il meno studiato.
Eppure le scoperte che si sono succedute nel tempo confermano la presenza dell’ uomo nella regione già dal paleolitico, come documentano i raschiatoi di Cerreto Sannita e l’amigdala proveniente dal terreno alluvionale di Guardia Sanframondi il raschiatoio e la punta a dorso da Calvisi di Gioia Sannitica, ma ancora i ritrovamenti da Prata Sannita ancora più vicino ad Isernia. Per il Mesolitico (15.000-5000 anni fa) ed il Neolitico (8.000-3500 anni fa) la scoperta di manufatti litici è certamente maggiore per il numero stesso di questi, segno anche di un incremento della popolazione rispetto ad epoche più antiche, e queste si presentano con interessanti manufatti rinvenuti fra cui una capanna nei pressi di Telese e una palafitta nei pressi di Castelvenere, ancor più le molteplici punte di freccia ritrovate lungo l’arco appenninico da Capriati al Volturno fino in pratica a Ponte Casalduni. Tra San Lorenzo Maggiore e Guardia Sanframondi i ritrovamenti più antichi risalgono al Paleolitico inferiore a circa 300.000 anni fa, si tratta di una “Mandorla di Chelles” una pietra in quarzite lavorata ed usata come strumento da taglio. Nell’area del Taburno-Camposauro la stazione preistorica Camposauro e dall’officina litica di Piana di Prata. Qui esistono alcune formazioni di selce che si presentano sotto il duplice aspetto di liste e di ciottoli fluitati. Questa zona ha restituito abbondanti scarti di lavorazione consistenti in nuclei, di cui uno conservante in parte il cortice, molte lame ed alcune punte di freccia. La Piana di Prata si trova fra il monte Cardito e il Monte S. Angelo di Camposauro (m. 1190 s.l.m.) l’officina litica si trova dunque lungo quella che nell’antichità dovette costituire la strada più breve fra la Valle del Volturno e la conca di Benevento.
La caratteristica faunistica del territorio “visitato” nei millenni da tali umani, non era molto differente da ciò che oggi vediamo, areee con una vegetazione composta da Quercia, Pino, Betulla, Faggio, Carpino, Noce e Castagno dove negli spazi pianeggianti ed alluvionali dei corsi d’acqua questi si accampavano durante le stagioni della caccia, frequentando i luoghi in modo sistematico, anno per anno, secolo per secolo, per millenni e decine di millenni, in un susseguirsi generazionale di umani suddivisi in gruppi umani a carattere familiare composti da poche decine di individui, con una organizzazione degli spazi abitativi e dei compiti dove donne e bambini si occupavano della raccolta di erbe, radici, frutti selvatici e partecipavano alla macellazione allorchè gli uomini tornavano dalla caccia, attività a questi riservata.
Come accennato è questa una realtà storica poco conosciuta, ma pensare che corsi d’acqua come l’Isclero, il Titerno, il Volturno, il Carpino, il Calore, il Lete, l’Arvento, siano stati luoghi attrattivi per l’umanità rende l’idea dell’importanza della conoscenza dei territori in cui viviamo, conoscere le proprie radici per sapere chi siamo per capire dove andiamo.