• 14 Novembre 2025
Cultura

La duplice festività di San Michele Arcangelo, un unicum nella realtà del cattolicesimo, esprime di fatto l’antico fenomeno della transumanza. Infatti il 29 settembre coincideva con la partenza degli armenti e l’8 maggio con il rientro di questi.
La parola transumanza significa “pastorizia trans migrante” ed è composta da Trans-al di là e da Humus-terra, come a dire greggi che migrano di là dalla terra.
Nel 1442 gli Aragonesi, da quasi due secoli al governo della Sicilia, estesero il loro dominio all’intero Regno di Napoli, estromettendo gli Angioini.
Nella riorganizzazione fiscale di Alfonso I di Aragona fu istituita nel 1447 la “Regia Dogana della mena delle pecore di Puglia”.


La Dogana della mena delle pecore aveva come compito quello di organizzare la pastorizia nel Regno di Napoli, utilizzando i pascoli della Regia corte ed aggiungendone altri di proprietà privata, convogliando gli armenti attraverso i tratturi, dall’Abruzzo, dal Molise e dalla Lucania nella pianura della Puglia.
Le basi della transumanza si riassumevano in quegli elementi fondanti dell’organizzazione territoriale della transumanza stessa che erano: i tratturi, le locazioni, le mezzane e le poste. I tratturi erano le infrastrutture viarie erbose, larghi sessanta piedi napoletani cioè 111 metri, di antica creazione risalenti al periodo Protostorico che collegavano i territori di montagna dell’Abruzzo, del Molise, della Campania con i pascoli della dogana. Le locazioni erano gli ambiti territoriali in cui il territorio era diviso ai fini gestionali e fiscali. All’interno di ogni locazione erano presenti le “terre salde”, cioè i pascoli e le “terre di portata”, cioè quelle riservate alla coltivazione ed il “locato” era colui che fruiva dei terreni a pascolo. L’obbligo di rotazione delle coltivazioni nelle terre di portata garantiva la migliore produzione agricola e consentiva, negli appezzamenti in riposo, il pascolo degli ovini. All’interno delle locazioni vi erano le “masserie di campo”, ovvero le “mezzane”, delle abitazioni dotate di strutture di servizio intorno all’aia, e le poste che erano ripartizioni o moduli, con all’interno strutture e recinti precari in pietra a secco. Per più di tre secoli quasi tutte le terre demaniali di Puglia, dalla Capitanata alla Terra di Bari e a quella d’Otranto, divise in 43 locazioni, a loro volta suddivise in 400 poste estese per circa 500 mila ettari, vennero destinate a pascolo per soddisfare le esigenze di erbaggio delle innumerevoli greggi abruzzesi, molisane, campane, lucane e pugliesi; agli inizi del 1600, nel periodo di massima diffusione della pastorizia, più di 5 milioni erano le pecore “locate” alla Dogana di Foggia, sede principale della Dogana della Mena delle pecore.


In cambio dell’uso dei pascoli del Tavoliere e dietro pagamento di una discreta tassa a favore del fisco, i locati ricevevano protezione dal governo anche lungo il percorso della transumanza, che si snodava lungo i tratturi. La protezione del Governo era dettata da un funzionario, il Doganiere, il quale aveva piena giurisdizione sui possessori degli animali doganali, sui pastori e sugli altri addetti. La giurisdizione speciale del doganiere dette vita al Tribunale doganale di Foggia o più semplicemente Tribunale di Foggia che disciplinava il pascolo del bestiame, l’esercizio dell’agricoltura (una porzione di terre fu espressamente riservata all’attività agricola) nelle terre fiscali di Puglia, le istruzioni doganali e le procedure previste per il funzionamento stesso del Tribunale. Il doganiere era coadiuvato da due funzionari i“credenzieri “con l’incarico di riscuotere la “fida” cioè la tassa dei pascoli ed un “uditore” per l’amministrazione della giustizia. Il doganiere inoltre eleggeva gli ufficiali minori e subalterni detti “cavallari” che accompagnavano a cavallo pastori e bestiame e d’inverno assistevano il doganiere nelle locazioni. L’istituzione del tribunale doganale aveva anche un altro merito: quello di rappresentare per i cittadini delle terre baronali uno strumento idoneo per liberarsi dalle vessazioni commesse nelle corti locali dai feudatari, di evitare con il pagamento della fida le gabelle dei dazi per il passaggio di ponti, l’uso di abbeveratoi e le soste in aree baronali . Nei primi tempi dell’istituzione della Dogana, il pagamento dell’affitto dei terreni era effettuato con il metodo della “professazione “ dove ogni possessore di pecore professava, cioè rivelava, in un giorno determinato il numero delle sue greggi e i terreni migliori erano riservati a chi ne possedeva il maggior numero.
Lo snellimento nel tempo delle procedure previste per il funzionamento del Tribunale doganale fece incrementare anche il numero di coloro che sceglievano di condurre le greggi nei pascoli fiscali, perché in tale modo le eventuali cause venivano emendate dalla giurisdizione ordinaria e ricondotte in quella doganale.


La condotta delle greggi era organizzata secondo i numeri stessi delle greggi e questi non erano interamente di proprietà del pastore. Di solito occorrevano sette pastori per guidare 1000 pecore, più dei ragazzi che fiancheggiavano le greggi che in gergo erano detti “pastiriculi” e diversi cani. Colui che conduceva “ il massaro”, decideva percorsi e soste ed a volte egli era anche il proprietario di una porzione del gregge. Di solito il massaro conduceva diversi greggi fino a giungere come detto al numero di mille pecore. Per la sosta notturna si costruivano recinti con spinosi cespugli di pero selvatico, si procedeva alla mungitura delle bestie e si lavorava il latte trasformandolo in formaggio, e al calare della notte la sorveglianza passava di fatto ai Cavallari che vigilavano a cavallo pastori e armenti, tenendosi ad una certa distanza. Questi socializzavano raramente con i pastori e per la maggior parte del tragitto di giorno non si vedevano, riposavano a turni dormendo in anfratti e grotte. Si distinguevano da altri cavalieri per la tipologia dell’abito indossato, costituito da stivali lunghi al ginocchio, cappello a falda larga, mantella lunga che copriva la sella e chiusa sul davanti da una catenella. Armati inizialmente di sciabola e di un lungo coltello, adottarono poi insieme alle armi bianche un corto fucile “lo schioppo”. Questi “vigilanti” fiancheggiavano le greggi fino al giungere di queste a destinazione, per poi mettersi al servizio del doganiere.


Una volta giunti a destinazione i pastori vivevano nelle “caselle” dei piccoli trulli di pietra con una apertura centrale nel tetto che consentiva la fuoriuscita del fumo del fuoco. Fuoco per riscaldarsi e produrre ricotta e formaggio di cui una parte era usata per barattare con pesce, olio, fichi e frutta secca. Non era possibile la macellazione di pecore o agnelli per fornirsi di carne poiché di frequente i pastori non erano i proprietari degli animali ma solo i conduttori di questi. E quindi incrementavano la dieta giornaliera con prodotti, come detto di scambio, la raccolta di verdure selvatiche ed in particolare di un fungo, il fungo ferula o cardoncella, chiamato anche la carne dei pastori molto comune ed abbondante nelle terre del tavoliere, veniva raccolto e consumato frequentemente poiché il suo sapore ricordava la carne.


Nel tempo però le cose iniziarono a cambiare e se intorno alla fine del seicento per farsi una idea, dalla sola media valle del Volturno si muovevano verso il Tavoliere tra le 46.000 e le 50.000 pecore, con una popolazione al tempo di circa 46.000 abitanti, nel 1865 si era praticamente azzerato il numero delle pecore transumate. Fu nel 1788 che si avviò il lento declino, quando si decise di cambiare sistema stabilendo un periodo transitorio con pagamento di un affitto sessennale, per passare quindi alla ripartizione di tutte le terre concedendole in enfiteusi perpetua. L’arrivo dei francesi a Napoli sancì l’emanazione della legge con la quale si aboliva la dogana del Tavoliere (legge del 21 maggio 1806) e si commercializzavano le terre assegnandole con preferenza a coloro che già le utilizzavano e da questo momento e fino al 1865, quelli che prima erano chiamati locati, presero il nome di censuari. Il periodo della Restaurazione fu caratterizzato da una pressione fiscale senza precedenti, che unita all’andamento negativo di diverse annate sia per le colture che per il bestiame, contribuì ad impoverire la ricca industria che il Tavoliere aveva alimentato negli anni precedenti, con l’inevitabile ricaduta sulle finanze del Regno: a tutto il 1823, lo Stato doveva ancora incassare dai censuari, che non riuscivano più a far fronte alle esazioni fiscali, un arretrato di oltre un milione di ducati. I tentativi e gli sforzi del governo di porre rimedio a questa situazione, non riuscirono a restituire all’istituzione della dogana i fasti del passato e il Tavoliere vide diminuire, di anno in anno, fino a scomparire quasi completamente, l’afflusso delle greggi ed il numero dei pastori che scendevano dai pascoli invernali. Ma tale cambiamento portò anche ad una diminuzione costante del numero delle pecore e degli addetti, e iniziò il sistema dell’alpeggio più consono e conveniente ai piccoli numeri di armenti. Da attività principale seguita dall’agricoltura nel volgere di poco più di un secolo, la pastorizia divenne una attività di sussistenza affiancata all’agricoltura perdendo inoltre tutta la filiera dei prodotti secondari in particolar modo l’industria laniera, che nell’area del Medio Volturno era una attività redditizia a conduzione familiare per la prima parte della filiera a cui seguiva l’acquisto e la lavorazione da parte del cotonificio Egg. Oggi la pastorizia nell’area del Medio Volturno vede non più di una quindicina di greggi per un totale di circa 1000 pecore e se pensiamo che nel 1787 solo l’Università di Piedimonte muoveva in transumanza 4310 ovini ci si rende conto di quanto sia cambiato in numeri ed in impiegati una attività che per secoli, aveva dato di che vivere a centinaia di famiglie.

Autore

Figlio della migrazione italiana degli anni 60 del XX° secolo, nato in Gran Bretagna e tuttora cittadino britannico a voler ricordare il mio essere nato migrante ed ancora oggi migrante (Interno). Sono laureato in Lettere (Università di Roma “La Sapienza) ad indirizzo Archeologico-Preistorico per la precisione in Etnografia Preistorica dell’Africa, un Master di primo livello in “Interculturale per il Welfare, le migrazioni e la salute” ed uno di secondo livello in “Relazioni internazionali e studi strategici”. Sono Docente a contratto di Demoetnoantropologia presso l’Università di Parma e consulente per il Ministero della Cultura in ambito Demoetnoantropologico. Mi occupo di relazioni con le comunità di diversa cultura del territorio di Parma e Reggio Emilia scrivo di analisi geopolitiche e curo una rubrica (Mondo invisibile) sul disagio sociale. Nel tempo libero da decenni mi occupo di ricerca antropologica, archeologica e storica del territorio della mia terra, della terra delle mie radici, Gioia Sannitica. Collaboro con diverse realtà divulgative e scientifiche on line (archeomedia.net- paesenews.it-Geopolitica.info-lantidiplomatico.it) creo eventi culturali, cercando sempre di dare risalto alla mia terra non intesa solo come Gioia Sannitica ma di quella Media Valle del Volturno, che fu il Regno Normanno di Rainulfo II Drengot.