• 13 Maggio 2024
Editoriale

Nel suo monologo sulla ricorrenza del 25 Aprile, ormai virale grazie all’involontaria complicità di zelanti caporali che ne hanno censurato la lettura su RaiTre, riferendosi al delitto Matteotti e alle stragi naziste compiute in Italia sul finire della guerra Antonio Scurati scrive parole tanto ardite sotto il profilo storiografico quanto azzardate sotto quello politico. Eccole: «Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del 24, primavera del 44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia (Meloni & co., ndr)?». Un paio di minuti (tanto durava il monologo) sono bastati per ridurre a mera delinquenza politica un ventennio di storia, rispetto alla quale persino il qualunquistico e tutto sommato descrittivo «Mussolini ha fatto anche cose buone» assurge a irripetibile bestemmia.

Tutto lascia pensare che Scurati sarà stato molto orgoglioso di vergare quelle parole. Al punto che manco si è accorto che stavano per portarlo fuori strada trasformando l’invettiva contro Giorgia Meloni, il suo partito e il suo governo nel più implacabile atto d’accusa contro un’intera classe dirigente che al fascismo aveva entusiasticamente aderito o verso il quale era stata comunque connivente. Non parliamo, per dirla con Totò, dei nostalgici “pro” del dopoguerra bensì dei tanti “anti” spuntati come funghi dopo il ribaltone del Gran Consiglio sull’ordine del giorno Grandi. Probabilmente Churchill esagerava nel censire 90 milioni di italiani, suddivisi in 45 milioni di fascisti pre-25 luglio e 45 milioni post, ma, di certo, con i nomi dei voltagabbana si potrebbero innalzare interi obelischi e forse non basterebbero piazze ad ospitarli. E qui casca l’asino: perché se il fascismo fu, come sostiene Scurati, «lungo tutta la sua esistenza storica (…)» solo«un irredimibile fenomeno di sistematica violenza omicida e stragista» che ne facciamo di Aldo Moro, Amintore Fanfani, Pietro Ingrao, Davide Lajolo, Ruggero Zangrandi, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Alberto Beneduce e tanti altri che a Mussolini inneggiarono o che con lui collaborarono attivamente nell’azione di governo? E in quale pantheon sistemiamo i nomi di Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio e degli altri dirigenti stalinisti che nel 1936 lanciarono l’appello agli operai italiani, salutati addirittura come «fratelli in camicia nera», rassicurandoli sul fatto che «noi comunisti facciamo nostro il programma Fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori»?

Certo, qualcuno obietterà che molti di quei nomi appartengono a uomini allora molto giovani. Ma giovani erano anche Giancarlo Pajetta, Sandro Pertini, Giovanni Amendola, eppure non mancarono di schierarsi contro il regime. Sarebbe bello ricevere in merito una risposta che chiarisca la partecipazione di così promettenti giovani o di intelletti tanto ingegnosi alla vita e all’attività di un regime esclusivamente criminale e criminogeno. Ma non arriverà. Anche perché Scurati non è uno storico bensì – apprendiamo da Wikipedia – un docente di scrittura creativa. E si vede, aggiungiamo noi. A nessuno studioso del passato degno di tale titolo, infatti, sarebbe mai venuto in mente di liquidare un’intera fase storica con una prosa tanto approssimativa quanto superficiale e così grezzamente propagandistica. Propaganda per se stesso, intendiamo, arte in cui Scurati mostra di avere davvero pochi rivali. Non è l’unico, ovviamente. Rientra infatti a buon diritto in quella eletta schiera di giornalisti, divulgatori, opinionisti che con il fascismo ed il suo fondatore intrattengono un rapporto di mera convenienza. Antifascisti numismatici, verrebbe da definirli, immaginandone la legittima passione per le monete – quelle in corso legale beninteso – e per le medaglie, metaforiche s’intende, ma comunque belle da ostentare in tv e sempre utili a raggranellare recensioni compiacenti, partecipazione a premi letterari e citazioni a gogò sui giornali che contano. Insomma, sparlare del Duce è soprattutto un buon affare e perciò guai a chi vorrebbe calare il Demonio dagli altari in nome della pacificazione nazionale e del disarmo degli spiriti. Insomma, è il contesto che spiega il testo (del monologo).

E allora si capisce bene che per Scurati e compagni la censura di un caporale di giornata è vera manna dal cielo poiché consente loro di sistemare il loro trito conformismo nel seducente astuccio del maudit, dell’irregolare, del perseguitato contro cui s’avventa il potere per tappargli la bocca. Un critico del pensiero dominante come Alain Finkielkraut ha così tratteggiato questi aspiranti martiri: «Occupano tutti i posti: quello, vantaggioso, del Maestro, e quello, prestigioso, del Maledetto. Vivono come una sfida eroica allordine delle cose la loro adesione piena di sollecitudine alla norma del giorno. Il dogma sono loro; la bestemmia pure. E per darsi arie da emarginati insultano urlando i loro avversari. In breve, coniugano senza vergogna leuforia del potere con lebbrezza della sovversione». Che cos’altro aggiungere se non che anche il popolo li ha sgamati? Proprio così: non li segue, se ne infischia dei loro sermoni, dei loro allarmi, delle loro petizioni, dei loro appelli e dei loro monologhi perché hanno capito che sotto il titolo… niente. Non c’è studio, non c’è metodo, non c’è preparazione. Abbondano, invece, faziosità, approssimazione, giudizi sommari e volontà di banalizzare, nel migliore dei casi, di demonizzare e criminalizzare, nel peggiore. Non stupisce che il loro debordare nel dibattito pubblico coincida con la scomparsa degli intellettuali davvero scomodi come lo furono un Pasolini o uno Sciascia, e infatti oggi dobbiamo accontentarci degli Scurati, appunto, dei Raimo e dei Montanari. Ma coincide anche con il diradarsi degli storici veri, quelli, cioè, che non emettono sentenze in linea con la tendenza ideologica del momento ma ricostruiscono gli eventi sulla base di testimonianze e documenti. Oggi che le prime vanno estinguendosi per cause naturali, restano i secondi. Anche per questo non si capisce sulla base di quale elemento, traccia o indizio il solito Scurati, sempre nel suo monologo, abbia imputato alla Meloni e al suo partito la volontà di riscrivere la vicenda del Ventennio fascista. Nulla, in realtà, sembra confermare questo suo atroce sospetto. In compenso, sembra che sia proprio lui ad essere tentato dal sostituire alla storia i suoi romanzi con vista sul premio Strega. Se è così, si accomodi pure: di cantaballe dal cuore a sinistra e dal portafoglio a destra è piena l’Italia. E male che vada, potrà sempre confidare in un caporale di giornata e nella sua provvidenziale censura.

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).