• 27 Luglio 2024
Cinema

Nel febbraio del 2024 esce nelle sale cinematografiche un film italiano scritto e diretto da Saverio Costanzo. Si intitola “Finalmente l’Alba” ed è uno di quei film che portano indietro nel tempo, negli anni ’50, quando l’Italia, in particolare Roma, era la “gemella” di Hollywood, la capitale dei film, dei grandi kolossal del genere “Peplum”, in cui produttori, attori e registi, quelli italiani e quelli americani, siglavano una vera e propria storica collaborazione.

Ma questo Cinema non viene presentato nelle sue dinamiche burocratiche interne, tra i banchi dei ricchi produttori, ma attraverso gli occhi di una “capitata per caso”. La trama ruota intorno ad una ragazza di nome Mimosa che quasi per errore, nell’accompagnare la sorella ad un provino per comparse all’interno di un  kolossal a Cinecittà, viene notata da una famosa attrice americana. Da quest’attenzione, così casuale e improvvisa, Mimosa si perde, letteralmente e figurativamente, tra i capannoni del set cinematografico e suo malgrado si ritrova a dover passare una notte all’interno di un ritrovo di attori, registi e artisti dell’ambiente in cui sperimenta qualcosa che le cambierà la vita. Conoscerà il mondo dello spettacolo, ma quello del “dietro le quinte”, quel lato nascosto e non sempre bello, molto spesso lontano dai vagheggiamenti, dalle idee e dai quei pensieri mitizzati e ammaliati che la gente comune è solita dedicare a tali ambiti, poiché accecati dal fascino del Cinema, di quest’arte che presenta un volto reale e un volto finto.

Ed è proprio nell’esplorare questa ambivalenza, calandosi in quella faccia nascosta del Cinema, che la storia di Mimosa si presenta come una scoperta della verità, una verità interiore, intima e personale, eppure tanto percepita con immediata apprensione dallo spettatore. Mimosa infatti è sì la nostra protagonista, ma come tale diventa anche il nostro “punto di vista” e tale effetto ci investe quasi immediatamente, già dai primi minuti del film. Questo è reso possibile soprattutto grazie ad un’atmosfera immedesimante, resa con abilità tramite la direzione del regista e la toccante, strabiliante recitazione della giovane ed esordiente Rebecca Antonaci, l’attrice che interpreta Mimosa.

Tale vincente combinazione rende il tutto strettamente intimo e personale. Le inquadrature indugiano sui volti, captano le micro espressioni, riflettono il punto di vista della protagonista, poiché tutto quello che vediamo è una sua “impressione”, una sua “soggettiva”, come si dice nel linguaggio cinematografico. In pratica, in gran parte della pellicola, assistiamo perennemente a quello che sperimenta lei, “seguiamo” la sua vicenda che di conseguenza diventa anche la nostra. Senza contare che ad affiancare regia, fotografia e recitazione vi è la sceneggiatura, risultato di una scrittura sapiente e del modo mirato con cui l’intreccio e i personaggi ci vengono raccontati. Per esempio, la figura di Mimosa è immediatamente delineata nella sua configurazione psicologica e non si dà spazio ad alcun dubbio su che tipo di persona sia la protagonista. Sappiamo subito chi è e come è fatta: insicura, timida, impacciata, gentile, onesta, in pratica è una “brava ragazza”, ma come spesso accade nella vita, i buoni sono spesso definiti fragili e deboli.

Questa è la storia di come una persona buona può fare della sua gentilezza la sua forza. Ma Mimosa deve avere un’occasione per “accorgersi” di questa forza che è in lei. Ed è qui che scatta la genialità della sceneggiatura. Di solito, come vuole giustamente la tradizione narrativa, il personaggio principale, quello per cui lo spettatore, o il lettore nel caso di un libro, prova la maggiore empatia, deve iniziare in un modo e finire in un altro modo. Ecco il motivo per cui spesso la simpatia per il protagonista la si guadagna strada facendo, quando lo spettatore percepisce il suo “miglioramento” o comunque il cambiamento che poi verrà a cristallizzarsi in una nuova personalità, una nuova consapevolezza oppure in una ricompensa. Anche in “Finalmente l’Alba” percepiamo un cambiamento, ma non è inteso nel senso classico del termine. Si tratta di un cambiamento “latente”, intimo, di una crescita di consapevolezza. Infatti non stiamo parlando di un cattivo che deve diventare buono o viceversa, bensì di una persona che per tutto il film resta la medesima. A cambiare è l’atteggiamento che lei ha di sé e nei suoi confronti. Il superamento del “fatale flaw”, ovverosia del “vizio”, del difetto principale, è il superamento della sua tendenza a non apprezzarsi, a non abbracciare chi è veramente, per cui le esperienze che vive in quella notte non portano la ragazza ad abbandonare una personalità per abbracciarne un’altra, al contrario la sua personalità non può che rafforzarsi. Quindi, sebbene si tratti di un personaggio “passivo”, un “reagente” alle cose che la travolgono piuttosto che un “agente”, un personaggio attivo, che prende le decisioni, che agisce e che con le sua azioni cambia il destino delle cose, questo non fa di Mimosa una figura statica, debole, noiosa. Al contrario, la sua forza d’animo, già presente in forma inconsapevole all’inizio, sigla alla fine la sua “emancipazione” emotiva dai vincoli sociali, dai timori e dai giudizi della vita ordinaria. La chiave che porta a questo, sottolineiamolo, è la “notte”, che già da un punto di vista simbolico si apre ad una serie svariata di interpretazioni. La notte in questione è il fulcro dell’intreccio e rappresenta il tempo di una catarsi graduale, di un confronto tra Mimosa e le sue paure, i suoi dubbi e le sue incertezze, il “buio”. La notte che passa insieme agli attori, all’interno di questa villa presso Roma, permette a Mimosa di confrontarsi con una realtà nella quale la “stranezza diventa normalità” e la “normalità diventa stranezza”, per cui i timori di essere se stessi sfioriscono di fronte alla “relatività” del modo di vedere le cose. La visione del mondo di Mimosa infatti non è quella delle persone che incontra: a volte è opposta, a volte complementare. C’è poi da dire che questa notte simboleggia ovviamente l’ignoto, un ignoto che Mimosa, e quindi indirettamente anche noi, è costretta ad affrontare, in una serie di “avventure” nelle quali tutto accade in maniera confusa, quasi come in un sogno, in cui lo spirito della protagonista viene temprato e messo alla prova, attraverso uno sconvolgimento emotivo e psicologico. Tutte le sue emozioni vengono “tirate fuori” e messe a confronto: la modestia lascia il passo all’orgoglio, il disagio alla gioia, la paura al coraggio, la libidine all’amore. Questa compresenza di opposti, di esperienze contrarie che si susseguono rapidamente rendono la vicenda di Mimosa una sorta di esperienza “onirica” eppure straordinariamente reale. Infatti un altro aspetto su cui gioca questo film, stimolando così l’attenzione dello spettatore, è la “verosimiglianza”. Quello che accade in un racconto è in grado di attrarci perché “potrebbe accadere” e la stravaganza della notte in questione è comunque realisticamente possibile. Si parla infatti di una “stranezza” che è tale solo perché non la si conosce, non solo perché interessa solo un determinato e ristretto gruppo di persone, “lontane” dalla nostra vita ordinaria (e dunque dalla vita ordinaria di Mimosa), ma anche perché, per l’appunto, il tutto accade in un periodo nel quale l’ordinario “dorme” ed è inconsapevole del resto. Questo “sogno”, strano ma vero, ci viene presentato in tutti quei caratteri che, in quanto uomini, riconosciamo con immediatezza e che ce lo fanno percepire in quanto tale.

Quando nel film giunge l’alba, richiamando così il titolo, Mimosa, si sveglia letteralmente da un sonno e insieme a lei ci sentiamo “cambiati”, straniti. Proprio come dai sogni si può restare turbati, spaventati, ma anche ispirati, rinati, oppure semplicemente più consapevoli, come colpiti da qualche epifania, così Mimosa ci accompagna in questo “risveglio” e come lei ci sentiamo di dire “grazie” ai responsabili della sua avventura poiché, sebbene sconvolgente e a tratti inquietante, percepiamo che qualcosa in noi è “accaduto”. In effetti, all’inizio del film, Mimosa non ha il coraggio di guardarsi allo specchio: tiene gli occhi chiusi con un sorrisetto di sfida rispetto alle lamentele della madre che invano la incita ad aprire gli occhi. Alla fine del film, in una occasione simile, i suoi occhi non solo rimangono aperti, ma indugiano sul suo riflesso. Ed ecco che ricompare quest’oggetto, lo specchio, che molto probabilmente si presenta come un ulteriore elemento simbolico. Esso è sì un oggetto fisico, ma anche un’allegoria, che si presenta all’inizio come una premonizione a tutto quello che sarebbe accaduto alla protagonista e ritorna come per coronare questo viaggio interiore, questa  ricerca di sé stessi e questa accettazione grazie ad un’esperienza incredibile la cui consapevolezza ha permesso alla nostra protagonista di tralasciare il superfluo, di guardare l’essenziale e di ritrovare il coraggio di aprire gli occhi, vedersi riflessa e finalmente sorridere.

Come disse Dino de Laurentiis “Il Cinema non può morire perché è il mondo dei sogni”. In una sala cinematografica si spengono le luci e osserviamo, viviamo e sentiamo qualcosa di “finto” ma vero allo stesso tempo. Quando le luci si riaccendono e usciamo dalla sala ci siamo svegliati e torniamo alla realtà. “Finalmente l’Alba” è la storia di un sogno, ed essendo un film, in un certo senso si presenta come “un sogno nel sogno”, che a differenza di quelli ordinari è fatto ad occhi aperti ed è bizzarro, strano, sublime, inquietante e comunque affascinante. Tutto questo fa di “Finalmente l’Alba” uno dei tanti e meravigliosi omaggi alla cosiddetta “settima arte”.  

Autore

nasce a Piedimonte Matese, provincia di Caserta, nel 1996. Dopo la laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”, si cimenta nella recitazione, nel doppiaggio e nella regia cinematografica. Contemporaneamente coltiva la sua passione per la scrittura, con la sua prima opera, la trilogia di Partenope, come frutto del suo amore per il mare e come omaggio alle sue amatissime origini siculo-napoletane.