• 16 Ottobre 2024
Editoriale

Niente ha attratto la mia fantasia di bambino più d’una tavola ricca e ben apparecchiata. Sono rimasto sempre affascinato dalla quantità e dalla varietà di alimenti che la Provvidenza mi metteva a disposizione. Una festa per gli occhi e non solo. Tuttavia non mi sono mai lasciato andare al piacere di immaginarne i sapori, bastandomi la visione di quell’assieme di piatti ad appagare i miei sensi. Probabilmente il dato estetico prevaleva sull’essenza dei cibi stessi, ma nessuno mi toglierà mai dalla testa che una mensa ha un valore per se stessa, indipendentemente da ciò che la compone. E su di essa ho sempre avvertito una sorta di presenza sacrale, se così posso esprimermi, sia quando vivevo in famiglia, fino all’età di dieci anni o poco più, sia quando ho vissuto in Collegio dove il refettorio non l’ho mai percepito come una mensa anonima e fredda, ma piuttosto luogo comunitario per eccellenza dove ci si scaldava il cuore prima che il corpo. E lì ho imparato a mangiare tutto e ad apprezzare anche ciò che per infantile pregiudizio non mi piaceva e che in casa nessuno mi forzava ad assaggiare. Laddove non arrivarono i miei genitori poterono i monaci, in particolare il Padre rettore don Don Benedetto Evangelista il quale un giorno – ed ero poco più di un bambino – passando tra i tavoli e vedendo vuoto il mio bicchiere, mi invitò a provare un dito di vino. L’avrei ringraziato per tutta la vita: ancora oggi quando lo racconto non mi si crede.

Avrei scoperto poi nella Regola di San Benedetto l’importanza del cibo per la comunità e le disposizioni, tutt’altro che “penitenziali”, nel nutrirsi, quasi che il Grande Fondatore, che pure non si faceva mancare il digiuno, volesse sottolineare l’apprezzamento per i frutti materiali donati dal Signore non soltanto al fine del necessario sostentamento, ma anche per alimentare lo spirito con la serenità dovuta ad un corretto nutrimento. Del resto che intorno al cibo si estrinsechino perfino pratiche quasi religiose è noto dalla notte dei tempi. Esso viene benedetto presso molti popoli e  dalla Bibbia ai testi sacri orientali riconosciamo tracce profonde dell’approccio sacrale ad esso, senza considerare che l’Ultima Cena in qualche modo segnò il passaggio di Cristo da mondo profano a quello divino.

Ma c’è una estetica quasi spirituale che si dovrebbe cogliere nel cibo e che se la si riconoscesse , forse ne impedirebbe o quantomeno ne limiterebbe lo scempio che se ne fa: uno dei più dolorosi “misteri” della modernità perché strettamente connesso alla diffusione della fame. Ed è un’estetica “privata”, in un certo senso, in quanto legata alla sensibilità di ciascuno attorno al desco.

E’ ovvio che la qualità delle vivande ha una importanza decisiva nel giudicare il cibo e nel lasciarsene incantare; ma davanti ad un a tavola ben  imbandita, è la mente a eccitare il palato e non il contrario. Infatti, tutto, dai colori ai profumi, mi si rivela ancora oggi come l’apparizione di un dono. E indubbiamente il cibo, per quanto non cada dal cielo, ma costi fatica e sudore, è pur sempre un “regalo” che non a caso in ogni epoca è stato considerato come tale da chi ha avuto a che fare con l’imprevedibilità delle stagioni e dunque con l’incertezza gravante sul raccolto dei frutti della terra.

Il cibo, dunque,  continua perciò ad avere per me (e credo per tanti altri) connotazioni spirituali, se così posso dire, che poche altre cose materiali riescono a trasmettermi. Sarà perché a esso associo ancora la preghiera- ringraziamento che la mia bisnonna prima e poi mia nonna e poi ancora mia madre recitavano prima di assumere i pasti principali; sarà per l’abbondanza che non è mai mancata nella mia casa e per la quale sono stato educato alla riconoscenza verso Dio; sarà per la natura stessa degli alimenti che suscitano un puerile entusiasmo al punto da dissipare o alleviare le preoccupazioni; fatto sta che di fronte al cibo non riesco a pensare ad altro che alla vitalità della natura e alla sacralità del corpo che si smuove e assume quasi una dinamicità diversa rispetto a tutte le altre occasioni.

Ma il cibo, i profumi della cucina, l’affaccendarsi attorno ai fornelli di donne giovani e anziane, la frenesia nel cercare e comprare i prodotti necessari per preparare le pietanze stabilite, per quanto dimenticati nel frastuono contemporaneo e nel meccanismo consumistico, hanno comunque caratterizzato, e per quel che mi riguarda ancora caratterizzano, giorni particolari dell’anno.

La solennizzazione “profana” delle feste è legata, infatti, ai pranzi e ogni festa è segnata da un pranzo speciale nel quale si rinnovano tradizioni, riti, usi, costumi e si esprimono sensibilità di genti diverse abituate a utilizzare i prodotti della loro terra per festeggiare attorno a una tavola possibilmente in compagnia di parenti e amici. Non credo di essere il solo a provare una vera e propria emozione dinanzi a pietanze ben fatte e costruite talvolta “magicamente”, esteticamente esaltanti; ma anche davanti a pasti frugali, non per questo meno saporiti e ricchi di rimandi a ricordi, la sensazione è la medesima. Per un motivo molto semplice: il cibo è l’elemento più vicino alla nostra natura umana. Esso serve per farci vivere e noi lo abbiamo, dalla notte dei tempi, onorato non semplicemente cuocendolo per nutrirci, ma cucinandolo per godere del nutrimento stesso che altrimenti avrebbe soltanto una funzione fisiologica. È quasi un atto d’amore che compiamo ogni volta che ci accostiamo a esso. Quasi sempre senza saperlo e perciò, il più delle volte, non ne apprezziamo il senso.

Talvolta lo disprezziamo addirittura poiché il consumo cui siamo dediti, al punto di non accorgercene più, non lo rende appetibile prima all’anima e poi ai sensi. Lo trangugiamo, secondo stili e modelli di vita barbari che al tempo dei barbari “storici” non sarebbero stati neppure concepiti. E quantità ingenti le gettiamo nella spazzatura perché non sappiamo fare i conti con la nostra ingordigia. Ecco come una parte di noi finisce per essere offesa dalla nostra insensibilità, dalla voracità, dall’avidità cui abbiamo devoluto una parte considerevole della nostra animalità.

Ma il cibo, frutto di fatiche, sudori, dolori, amori, pianti, resta sempre e comunque in attesa di soddisfare il nostro bisogno elementare e sostenerci. Non mi pare ci sia altro al mondo che abbia questa funzione, al di là dell’immaterialità cui pure dovremmo dedicare più spazio nella nostra quotidianità. Per quanto su di esso s’imbastiscano immorali speculazioni e si giochino partite criminose al punto da farlo mancare a centinaia di milioni di esseri umani ogni giorno in qualche parte della Terra, il cibo è il primo canto all’Inconoscibile anche da parte di chi non crede, poiché il risultato del lavoro che arriva sulla tavola ad acquietare il tormento e a lenire le pene non può che essere una forma di consacrazione laica dalla quale, paradossalmente, il vino che si fa sangue e il pane che si fa carne sono gli elementi del sacrificio eucaristico secondo i cristiani e secondo i pagani erano i doni primari che si offrivano agli dèi.

Le messi e gli animali sono stati – e presso alcuni popoli lo sono ancora – nutrimento degli uomini e simboli di gratitudine alle divinità. In questo legame sacrale c’è l’essenza del cibo il quale è anche il tramite comunitario che riunisce attorno al desco famiglie ed estranei, contribuendo in modo decisivo a creare le condizioni di una pace o, quantomeno, di una tregua negli affanni della giornata. Inconsciamente, forse, noi amiamo il cibo, al di là delle sue stesse caratteristiche, perché esso esorcizza la morte facendo vincere la vita.

La povertà di una tavola è come un rito funebre. Ma basta poco, perfino il più povero dei piatti, perché si accenda una fragile speranza ben sapendo che poi andrà delusa e bisogna ricominciare daccapo. Nelle Sacre Scritture, nel Vangelo, nell’Edda di Snorri, nella Bhagavad Ghita, nel Corano il cibo, il nutrimento, la condivisione degli alimenti sono protagonisti di percorsi iniziatici e di canti solenni o sommessi che rimandano alla religiosità del soddisfacimento del bisogno primario a restare in vita.

Eppure siamo alle prese con l’incoscienza che porta alla dissipazione. E dalla gloria del frutto elevato a simbolo di prosperità un breve passo ci fa precipitare nell’orrore della fame, mentre di converso numerose malattie, perfino mortali, sono originate dall’ingordigia che soltanto nelle aree più opulente del Pianeta viene praticata come una sorta di diabolico rito sacrificale. Il cibo sprecato, gettato, maltrattato è un moralmente un peccato, socialmente un crimine. Un’offesa alla Provvidenza.

Gli “avanzi” dai quali un tempo si tiravano fuori piatti gustosi e tutt’altro che immeritevoli di figura su una mensa più che decorosa, oggi si gettano: uno spreco  che costa circa 800 miliardi di euro l’anno. E’ un terzo del cibo del mondo che viene buttato. In Italia, in particolare,  ogni anno gettiamo via alimenti per 16 miliardi di euro, eppure sono 2,7 milioni i nostri connazionali costretti a chiedere aiuto per mangiare. Tra di loro  455 mila bambini di età inferiore ai 15 anni, quasi 200mila anziani sopra i 65 anni e circa 100mila senza fissa dimora. Pensionati, disoccupati, famiglie con bambini i nuovi poveri che, per vergogna, prediligono l’aiuto dei pacchi di cibo alle mense, cui si rivolgono appena 114mila persone. Altri li vediamo frugare nei cassonetti dell’immondizia alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti o anche per coprirsi. Eppure, si dice, mai il mondo è stato tanto ricco. Non

A tutto questo mi capita di pensare ormai quando mi accosto al cibo che tuttavia non smette di affascinarmi, quasi religiosamente come ho cercato di spiegare.

C’è qualcosa di nascosto, “segreto”, e forse in questo ho rinvenuto il  fascino consapevole del cibo al punto di mangiare con gli occhi, come mi si rimprovera affettuosamente qualche volta, nella tavola colma di ogni bene che non ho mai saputo raccontare fino a quando non mi sono trovato in un campo di profughi saharawi nel deserto meridionale algerino. Lì, davvero c’era poco di cui sfamarsi. E la miseria, le malattie, gli occhi sgranati di decine di bambini penetrarono dentro di me al punto da assaporare il latte di cammella e mangiare pochi datteri insieme con qualche rozzo ma saporitissimo dolciume condividendo la gioia di farlo con chi neppure immaginava che, in via del tutto eccezionale, quel giorno, quella sera ci sarebbe stato un banchetto in onore di chi aveva portato loro poco o niente, forse soltanto un po’ di comprensione.

Davanti a me, mentre il sole calava, si allargavano profumi intensi che non avevo mai sentito. Il capo del villaggio, macilento e gioviale, aveva ammazzato un grasso montone da consumare insieme con lo stupito europeo dopo aver reso grazie ad Allah. E ci furono peperoni piccanti, e lattughe non so da dove arrivate e il cocomero più rosso e zuccheroso mai assaporato a fare di quel pasto il più ricco e indimenticabile che  abbia mai consumato.

Gli occhi dei bambini saharawi erano luminosi come non li ho visti mai più e dalle donne fasciate da vestiti sgargianti prorompeva una bellezza  indescrivibile, una sensualità viva, attraente, ipnotizzante, tale da far dimenticare che su quei corpi si esercitava quotidianamente la sofferenza, la fatica di vivere. In quei cibi consumati in allegria, ritrovai lo spirito di una koiné che nel mio vecchio Occidente avevo perduto. Da allora non ho mancato mai una volta di levare il calice, cercando di non farmene accorgere, al cibo dei poveri che è il più saporito, benedetto dalla fatica e dalla privazione, ma quanto delizioso al palato non meno che allo spirito.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.