• 27 Luglio 2024

Giovanni Gentile è stato davvero il filosofo della nazione italiana. E a ottant’anni dal barbaro assassino per mano dei partigiani comunisti, lo si può dire senza tema di smentita.  Libri, convegni, discussioni e una imponente mostra organizzata a Roma  dal Ministero della Cultura  – “Scendere per strada”, aperta il 15 aprile e tale resterà fino al 7 luglio – testimoniano della importanza del più grande filosofo del Novecento, dopo lunghi anni di oblio.

Gentile è il solo che ha saputo interpretare nel secolo scorso l’anima del suo popolo e volgere l’attenzione appassionata di studioso nel dare forma a ciò che forma non aveva. Perciò il suo pensiero è quanto di più strettamente legato al “sentire” nazionale. La sua lezione esistenziale, morale e civile, infatti, si proiettò nella costruzione di una identità finalmente unitaria e riconoscibile. La quale da un lato gli guadagnò il plauso dell’Italia migliore, capace di comprenderne l’intendimento; dall’altro l’inimicizia dei mediocri che pure si pascevano all’ombra del fascismo e conservano i caratteri dell’Italia residuale dei secoli di ignavia e di schiavitù, mercenaria al servizio del padrone più munifico e crudele, incapace di riconoscere il proprio destino pur avendo esempi di inarrivabile grandezza che avrebbero dovuto ricordarglielo, da Dante e Machiavelli,  da Petrarca a Boccaccio, da Michelangelo a Leonardo, da Pontefici e Signorie che  pur ebbero l’intuizione, nel gran frastuono europeo seguito  per mille anni alla caduta dell’Impero, di una necessaria comunità di spirito e di intelligenze da ricostruire per riprendersi ciò che era della Patria comune.

Gentile riprese il cammino che era segnato e ne fece una filosofia della storia di un popolo che ne aveva bisogno per ritrovarsi.

Una filosofia che ebbe il suo culmine nella morte se non cercata quanto meno non evitata, parallelamente, si potrebbe dire, con il suo lascito teorico ed etico più profondo, quella Genesi e struttura della società che mai come oggi ci appare simile ad una luce in una notte profonda nella quale nulla più si distingue. Sicché l’assassinio di Gentile si fonde con la sua opera e sotto quella semplice lastra di pietra in Santa Croce a Firenze giacciono i resti dell’ultimo italiano che con la parola e la forza delle idee provò a dare alla nazione una possibilità per ritrovarsi come erede di una tradizione storica che neppure un condottiero avrebbe saputo immaginare.

Il suo allievo, grande pedagogista, Luigi Volpicelli annotava, sconsolato: “La rigida consequenzialità dell’idealismo del Gentile, e le ripercussioni che essa potè avere nella sua opera di ministro, credo che c’entrino assai poco. Ciò che di lui offese gli italiani, e che tuttora li offende, è da ricercarsi in quel fervore di fede, in quel sacrificio del proprio particolare, cui egli, insistentemente li aveva richiamati, dandone l’esempio con la vita e con la morte. Alla notizia della quale più d’uno ebbe a fargliene rimprovero, giacché era tra quelli, diceva, ‘che avrebbero potuto salvarsi’”.

E perché mai? Forse non si uccidono i filosofi quando con il loro pensiero “offendono” sensibilità meschine richiamandole alla scoperta di una insospettabile dignità? Da Socrate in giù lo spettacolo della “morte dei filosofi” – nei modi più vari, dalla costrizione al silenzio alle fiamme che ne ardono il corpo come accadde a Giordano Bruno – è andato in scena più volte sul palcoscenico della storia. E nell’epilogo tragico e volgare del ripudio plateale della patria italiana non poteva non starci anche l’omicidio del filosofo, vale a dire la negazione violenta dello spirito nella forma più aberrante e vigliacca nella certezza che profanando un corpo con esso sarebbero state profanate anche le idee.

Soltanto diabolici ignoranti potevano immaginare che la fonte di un fecondo pensiero si disseccasse con la soppressione di Gentile. Eppure rendendolo un martire ne riconobbero, inconsciamente, la grandezza morale fino a farne un’icona dell’Italia piegata, dileggiata, saccheggiata e svillaneggiata da eserciti che non ebbero riguardo per niente e per nessuno. Gentile giaceva, in cumuli di miserie materiali, non come il nemico reso inoffensivo, ma come l’uomo che lasciava in eredità un pensiero italiano, una lezione alla sua nazione incurante di quanto tempo ci sarebbe voluta perché venisse appresa.

Concludeva  Gentile la sua più alta affermazione di italianità con il coinvolgente  – e mai più eguagliato per forza spirituale ed intellettuale – Discorso agli italiani, pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, con parole che dovrebbero suscitare reazioni naturali ed ordinarie ed invece vengono ignorate costantemente non solo dalle legioni di “italiani inconsapevoli”, ma anche dalle classi dirigenti, in primo luogo gli intellettuali che tanto hanno contribuito e contribuiscono a diluire nel nulla dei vaniloqui la memoria stessa di Gentile come di tutta la tradizione storica e culturale del nostro Paese. Eccole, lapidarie ed esaltanti, come il lascito testamentario di un console romano: “Noi che siamo sulla china degli anni, e siamo vissuti della eredità dei padri, sentendo sempre l’obbligo nostro di conservarla, questa eredità, e per quanto era da noi di accrescerla, col nostro lavoro e con ogni sforzo di buona volontà, non sappiamo pensare che essa non abbia a potersi consegnare nelle mani dei giovani, capaci di sollevarla in alto col vigore delle loro braccia al di sopra delle passeggere discordie, dei piccoli risentimenti settari, delle ansie e dei rischi mortali dell’ora presente, al di sopra di tutte le umane debolezze, per tramandarla ai nepoti, sempre viva, splendida, nella sua eterna giovinezza”.

Una professione di fede, senza equivoci, assoluta e inattaccabile, nella “Patria immortale”. Per la quale sarebbe caduto non vinto, ma provvisoriamente occultato come un uomo rapito dagli dèi.

Rileggere Gentile a ottant’anni anni dall’assassinio significa fare i conti con la sua concezione della politica che per lui fu vita e, naturalmente, anche morte perché con la sua “esecuzione” ci fu chi immaginò di uccidere anche il suo pensiero. Un dato che mette a tacere coloro i quali immaginano il filosofo di Castelvetrano relegato tra le anticaglie speculative filosofiche di un tempo lontano e non più proponibile. In realtà pochi intellettuali hanno avuto la capacità di Gentile di andare oltre se stessi, il loro tempo e scavalcare le ondate emotive che la “fabbrica della cultura” periodicamente ci propone.

In tempi di relativismo, l’opera gentiliana, come ha osservato uno dei migliori interpreti di essa, Primo Siena in molti saggi, e segnatamente nell’ultimo, emblematicamente intitolato Giovanni Gentile un italiano nelle intemperie (Solfanelli), “svolge una vigorosa critica della democrazia moderna, quantitatistica , atomistica, atomistica, egualitaria, meccanicistica e sostanzialmente irreligiosa e batte in breccia i suoi miti, a partire da quell’ipocrita pacifismo che contravviene alla vera pace, la cui sede è innanzitutto nel cuore dell’uomo, ma come perenne superamento di quella guerra interiore che l’uomo ogni giorno combatte in sé”.

Infatti la filosofia per Gentile fu un duro cimento, un combattimento vero e proprio tale da conformarsi a norma vitale che ispirava l’azione in vista della realizzazione spirituale. Ma gli assassini non potevano immaginare, guidati dal cieco furore e spunti dall’ignoranza, che  eliminando il  filosofo non avrebbero liberato  la scena dal simbolo del fascismo agonizzante, ma  piuttosto che il restauratore di una certa idea dell’Italia e dell’incessante processo da lui promosso ed incarnato verso il raggiungimento di una necessaria pacificazione nazionale per ridare alla Patria il ruolo che le competeva. Ignoranti e vili. E mai pentiti. Da quel barbaro agguato nacque la “nuova Italia”, lo si ammetta senza reticenze. La morte del filosofo aprì la strada ad una lunga stagione di odio che si è trascinata fino ai nostri giorni inibendo all’Italia la possibilità di ricostituirsi come nazione dalle plurali componenti  convergenti in una sola identità. È questo il crimine consumato sul corpo inerme di Giovanni Gentile.

Ma chi  armò la mano dei sicari o del sicario il 15 aprile 1944, a Firenze? Probabilmente non finiremo mai di chiedercelo. Di tanto in tanto vengono fuori studi che aggiungono dubbi a certezze acquisite o ritenute tali. Al di là del fatto, che l’assassinio fu ispirato da ambienti che gravitavano nell’orbita del Pci, tanto che Palmiro Togliatti vi appose il suo autorevole sigillo dopo aver definito il filosofo come un “essere immondo”, restano ancora oscuri i contorni del complotto. Perché di un complotto si trattò, stando a quel che scrive al riguardo Luciano Mecacci, autorevole psicologo dell’università di Firenze, imbattutosi quasi per caso nel complicato affaire dell’omicidio di Gentile, nel suo libro La ghirlanda fiorentina,  (Adelphi) . E del complotto facevano parte, direttamente o indirettamente – ma questa è storia parzialmente nota – giovani intellettuali, molti dei quali già vicini a Gentile e a lui “riconoscenti”, poi votatisi alla causa del comunismo.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.