• 27 Luglio 2024

Tra gli intellettuali tedeschi della prima metà del Novecento Ernst Junger e Carl Schmitt occupano le posizioni centrali riconosciute anche nel tempo nostro che sembra asseverare le loro diagnosi politiche e metapolitiche. Entrambi, infatti, hanno espresso il disagio della modernità di fronte all’avanzare del nichilismo (il primo) ed alle convulsioni del potere (il secondo).

Che l’una e l’altra posizione si integrino esemplarmente per comprendere le contraddizioni drammatiche del Novecento che ci siano portati nel nuovo secolo, è fuori di dubbio. Tanto Junger che Schmitt, legati peraltro da profonda stima che tuttavia non è mai sfociata in un legame ideologico-politico come sarebbe stato lecito attendersi, hanno tentato un cammino “ribellistico” nei confronti della cultura e della visione del mondo che stava prendendo il sopravvento. Sia riguardo alle involuzioni della democrazia che rispetto agli esiti della crisi spirituale europea.

L’abbagliante totalitarismo materialistico, determinista e relativista li ha visti all’opposizione per quanto il loro coinvolgimento nelle vicende che segnarono la prima metà del secolo scorso li abbia fatti passare, stupidamente e superficialmente, come apologeti di ciò che tentavano di arginare: lavorando dal di dentro (Schmitt) fino a quanto fu possibile; immaginando una via aristocratica ed impersonale, esplicitamente individualista (Junger) per dare un senso alla pratica  aristocratica del superamento dei “valori borghesi” che minavano la stabilità  europea ed il suo ordine.

Tra gli intellettuali rivoluzionario-conservatori Carl Schmitt (1888-1985) ha una posizione  cruciale come ideologo che più di tutti gli altri si è posto il problema del potere, delle sue trasformazioni e del suo impatto sulla formazione dei nuovi aggregati politici venuti fuori dalla Grande Guerra. Egli ha “lavorato” quanto più gli è stato possibile all’interno delle istituzioni fornendo non soltanto gli apporti teorici alla costruzione di uno Stato nuovo tedesco negli anni Trenta, ma anche concretando un sistema di legittimità che superasse le tendenze totalitarie, cosa che non gli riuscì guadagnandogli anche la marginalizzazione da parte degli ambienti più radicali del Terzo Reich, particolare che per fortuna non sfuggì ai giudici di Norimberga che lo assolsero con un “non luogo a procedere”.

A poco più di trent’anni dalla morte, il percorso intellettuale di Schmitt viene riproposto in Italia dalla pubblicazione di due libri. Il primo, una silloge di alcuni dei suoi scritti, pubblicata da Adelphi, Stato, grande spazio, nomos, curata da uno dei suoi allievi più atterriti, Gunter Maschke. In questo libro, che riassume alcune de i concetti portanti dello studioso, si rintracciano le intuizioni schmittiane legate alla  «globalizzazione». Schmitt, infatti,  aveva visto, con eccezionale lungimiranza, come «l’universalismo dell’egemonia anglo-americana» fosse destinato a cancellare ogni distinzione e pluralità spaziale in un «mondo unitario» totalmente soggiogato dalla tecnica e dalla finanziarizzazione mondiale dell’economia oltre che assoggettato ad una sorta di «polizia internazionale». Un mondo spazialmente neutro, senza partizioni e senza contrasti – dunque senza politica, come viene notato nell’introduzione. Per Schmitt, al contrario, non può esservi Ordnung (ordinamento) mondiale senza Ortung (localizzazione), cioè senza un’adeguata, differenziata suddivisione dello spazio terrestre. Suddivisione che superi però l’angustia territoriale dei vecchi Stati nazionali chiusi, per approdare al «principio dei grandi spazi»: l’unico in grado di creare un nuovo jus gentium, al cui centro ideale dovrebbe tornare a porsi l’antica terra d’Europa, autentico katechon di fronte all’Anticristo dell’uniformazione planetaria nel segno di un unico «signore del mondo». Certo è che la prospettiva di Schmitt, viene notato nell’edizione degli scritti, già delineata ottant’anni fa, appare oggi più attuale che mai, e il suo pensiero si conferma fondamentale per comprendere la nostra epoca.

Il secondo è una lunga intervista, sotto il suggestivo titolo di “Imperium” proposto dall’editore Quodlibet, che si presenta come una vera e propria autobiografia, realizzata quando Schmitt aveva ottantatré anni, nel 1971, dallo storico Dieter Groh e dal giornalista Klauss Figge per la radio tedesca, sostenuta da un poderoso apparto di note approntato dai curatori che rendono ancor più comprensibile la parabola schmittiana. Dal lungo racconto della sua vita, risulta evidente come lo studioso non provò mai ad estraniarsi dal contesto storico nel quale il suo lavoro teorico prendeva forma nella definizione delle categorie della politica, della critica alla nuova geopolitica sofferente dopo la fine del Trattato di Westfalia, e alla conseguente decadenza del Vecchio Continente in seguito alla cancellazione dello jus publicum europaeum (il diritto interstatale che delimita l’ordinamento spaziale della res publica cristiana medioevale). E per di più in che modo si poneva il problema della sovranità ragionando attorno alla figura del “decisore”. Temi condivisi ormai da tutta la politologia più avanzata, senza pregiudizi di sorta. Nell’ intervista biografica, ricca di curiosità di straordinario interesse sulla sua formazione e sull’ambiente familiare,  espose senza reticenze i più problematici momenti della sua vita ed in particolare come divenne suo malgrado “giurista del Reich”, una posizione che gli avrebbe permesso di giudicare uomini ed eventi con grande lucidità, così come con smagliante sincerità confessò la sua critica al progresso illuministico e la sua fede cattolica supportata dalla frequentazione dei pensatori controrivoluzionari.

Vita pubblica e vita privata s’intrecciano in questa intensa “confessione” dalla quale viene fuori il senso di una lunga vita votata alla scoperta dei fondamenti reali della politica e della centralità dello Stato come “ordinatore degli ordinamenti”. Da qui la sua “inimicizia” totale verso la modernità affossatrice di ogni principio regolatore dell’esistenza umana. E l’avversione, mai nascosta, all’irrealismo utopistico distruttore delle strutture “naturali” che spesso ha dissodato il terreno su cui è germogliato il seme totalitario.

Lo stesso – e ciò li accomuna – può dirsi di Junger (1895-1998) che a poco più di centoventi anni dalla nascita e a diciotto dalla morte non smette di interrogarci sulle questioni poste dalla catastrofe esistenziale nella quale siamo immersi richiamati dal denso volume “Ernst Junger”, edito da Solfanelli,  ideato e curato da Luigi Iannone, nel quale ben trenta autori affrontano i “nodi” dell’ultimo grande scrittore tedesco che nessuno pensò mai di candidare al Nobel (e questo, come disse Alain de Benoist, qualifica in un certo modo il Novecento).

Il cammino  “ribellistico” intrapreso da Junger fin da giovanissimo e condotto alle estreme conseguenze nella maturità, approdato alla definizione della figura esistenziale, ma anche mitopoietica dell’Anarca, è oggi lo spartiacque tra coloro che aderiscono alla nevrosi della globalizzazione del pensiero e quanti, apparentemente appartati, rivendicano il primato della diversità aderendo a valori che si discostano dall’omologazione culturale e la sottopongono ad una serrata svalutazione. E’ ciò che si rivela nei contributi che Iannone ha messo insieme e che danno di Junger una connotazione attualissima. E ciò è tanto più vero se lo si considera in rapporto   alle involuzioni della democrazia e rispetto agli esiti della crisi spirituale europea. L’abbagliante totalitarismo  materialistico, determinista e relativista  di fronte al quale lo scrittore tedesco è sempre stato all’opposizione, risulta sbiadito alla luce delle folgoranti intuizioni jungeriane: dalla concezione dell’Operaio a quella “mobilitazione totale” che ha modificato sostanzialmente la considerazione dell’intervento esistenziale, politico, metapolitico, bellico e intellettuale, dalla classificazione della guerra come esaltazione dello spirito alla reinvenzione della pace (in senso tutt’altro che kantiano), dalle costruzioni oniriche della decadenza alle “irradazioni” che illuminano il suo lungo travaglio e costituiscono le metafore del superamento dell’egualitarismo massificante.

Iannone, molto opportunamente, richiama la definizione che meglio rappresenta Junger: “sismografo dell’era della tecnica”, in quanto connessa all’interpretazione della modernità della quale respinge le fantasmagorie sprigionate da un “pensiero negativo” che ha liquidato le libertà sostanziali per omologarle ad un universalismo nel quale sono sparite le differenze e si sono dissolte le “forme”, come le chiamava Gottfried Benn, che racchiudono il decaduto concetto di “umanità”: sacralità, onore, coraggio, comunità e via elencando.La figura dell’Anarca, estrema rappresentazione del rifiuto della modernità da parte di Junger, è la sola abilitata “all’attraversamento del bosco”, cioè della crisi.

Ma occorre una preparazione spirituale adeguata. Junger l’ha impersonata. E tanto basta a considerarlo come il più lucido assertore di una rinascita possibile per quanto disperato il contesto possa considerarsi.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.