• 27 Luglio 2024

Possono essere la “scelta” europea, la riappropriazione della politica, il tentativo di creare ed imporre nuove egemonie gli elementi dell’impegno di chi non è venuto meno all’aderenza ai valori “oggettivi” nel tempo della trasmutazione del senso e del bene comune? L’opera complessiva di Adriano  Romualdi, la cui giovane vita si spezzò sulla via Aurelia, in un terribile incidente stradale, cinquant’anni fa, a soli trentatrè anni, il 12 agosto 1973,  è la risposta affermativa a questo interrogativo “cruciale”. Risposta che a fronte di quanto sta accadendo nel mondo, ma soprattutto in Europa, ci sembra la più pertinente e la più attuale.

Allievo negli studi storici di Renzo De Felice, Giuseppe Tricoli  e nella acquisizione di una visione del mondo tradizionalista di Julius Evola, Adriano Romualdi fu il più giovane e brillante intellettuale della sua generazione, autore di specchiate virtù culturali cui teneva dietro una militanza politica non meno intensa correlata allo studio ed all’impegno di una vasta pubblicistica dalla quale ancora oggi attingiamo come se mezzo secolo non fosse passato: un giovane maestro, insomma. Ed i caposaldi della sua opera sono quelli enunciati uniti ad un culto delle origini come riferimento di una civiltà che vedeva perdere i suoi connotati e lo denunciava con una lucidità ancora oggi attraente che ne fa un nostro contemporaneo.

 La “scelta” europea per Romuladi, sintesi della sua visione politico-culturale, è innanzitutto un modo d’essere. Essa si esplicita nella consapevolezza della decadenza dell’Europa, essenzialmente intesa quale crogiolo di civiltà, e nel conseguente rifiuto della civilizzazione prodotto dal sentimento della stanchezza nutrito dalla “sofferenza del mondo”. La reazione alla “mitologia” della rinuncia – tipica di tutti i cosiddetti tempi ultimi, dunque anche del nostro – può trovare corpo soltanto nella ripresa degli ideali attivi che hanno scandito la nascita e la formazione della civiltà europea, in primo luogo la ripresa di una specifica e differenziata volontà di potenza non solo in grado di garantire un “ordine politico” al Vecchio Continente, ma anche – e soprattutto – quale esigenza di ridare un ruolo equilibratore all’Europa nel tempo del relativismo etico e del colonialismo economico-finanziario . Una visione desunta dalla Rivoluzione conservatrice che Romualdi “importò” in Italia attraverso una vasta pubblicistica.

L’Europa, in questo contesto, si rivela dunque un’idea piuttosto che una semplice espressione geografica, da lanciare nella mischia della contesa “imperiale” nella quale l’esigenza di una “pace europea” (nel tempo della grande confrontazione planetaria e della nascente potenza cinese) si fa di giorno in giorno più urgente a fronte della trasformazione in campo di battaglia (all’epoca  “strategico”) della vasta area che va dagli Urali alle rive atlantiche. Accanto a questa prospettiva di difesa v’è anche quella della riacquisizione della specifica identità europea snaturata da un “lavaggio del carattere” cominciato nel 1945 e mai cessato, se è vero com’è vero che l’Europa ha smarrito la propria identità per riconoscersi in un’Unione senz’anima governata da poteri irriconoscibili e lontani dallo spirito dei popoli.

La “scelta” europea non è disgiunta dalla riappropriazione della politica. Se tutte le ideologie egemoni erano e  sono ancor più oggi in crisi o scomparse, ciò è dovuto sostanzialmente al fallimento della loro applicazione alla gestione politica ed alla debolezza intrinseca che le ha caratterizzate. La negatività dei modelli marxisti e liberaldemocratici è dovuta essenzialmente alla sovrapposizione di schemi fittizi, intellettualistici sugli elementi “naturali” presenti nelle comunità umane che hanno prodotto l’annullamento politico delle soggettività le quali, sommerse, non hanno però cessato di esistere ed oggi, pare, riemergono prepotentemente sulla scena del “sociale” provocando indiscutibili traumi agli apologeti della “verità ideologica”. Riappropriarsi della politica, dunque, significa in buona sostanza interpretare, organizzare e rappresentare le cosiddette “nuove soggettività” che sono poi il nerbo della ricostruzione comunitaria quale istanza ultima della riedificazione dell’ordine politico.

Ai “nuovi soggetti” è dato di ricomporre i frammenti del “sociale” nel segno dell’egemonia politica e per una nuova politica dei valori che tenga conto della “oggettività” di questi ultimi: operazione non certo semplice dopo secoli di sfrenato nominalismo che ha condotto al desolante odierno relativismo, una landa immorale nella quale non soltanto è stata distrutta qualsiasi dimensione sacrale, ma sono state negate tutte le legittimazioni del potere non aventi a che fare con una “politica” degli interessi e degli egoismi particolari. Chi può decidere oggi – e sulla base di quale criterio – chi è l’hostis e chi è l’amicus? Le categorie fondamentali dell’ordine politico sono venute meno, o meglio, si sono trasformate ed il giudizio di valore è formulato esclusivamente sulla base di considerazioni utilitaristiche e mercatiste anche in assenza di una legittimità eminentemente politica facente riferimento ad una “etocrazia” riconoscibile ed accettabile, cioè rappresentativa dei valori civili, storici e culturali di un popolo, di una comunità.

Tuttavia, nella caduta verticale delle vecchie ideologie “egemoni”, quasi come pendant, riaffiorano le idee negate. La nazione è una di queste idee negate. Nella prospettiva della “grande politica” è interessante seguirne la trasformazione: oggi la nazione non è più quella di tipo ottocentesco tramandataci dalla cultura risorgimentale, ma s’identifica con una patria più grande, più complessa: l’Europa, appunto.

Ecco come i tre momenti – “scelta” europea, riappropriazione della politica, nuove egemonie – risultano strettamente connessi e compresi nell’opera di Romualdi che pur non avendo elaborato una specifica teoria al riguardo si è ad essi applicato proprio in vista della formulazione di ciò che chiamiamo “nuova cultura” e “grande politica”. Due concetti che rappresentano i binari lungo i quali corre una progettualità” di rinascenza civile e/o comunitaria che cade in un momento estremamente contraddittorio sia sotto il profilo culturale che sotto quello politico, ma i due profili, come è facile notare, sono estremamente legati.

Mentre da un lato si assiste alla ripresa da parte delle più disparate aree di pensiero di tematiche d’ordine filosofico e letterario di segno rivoluzionario-conservatore, essenzialmente quale sintomo della crisi delle ideologie supportanti le “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”, dall’altro si va diffondendo un costume culturale teso al dialogo – di per sé assai positivo – nel quale però sembra che manchino pathos della differenza, riconoscimento delle provenienze, coscienza delle appartenenze, ricerca di una specifica identità. Ritengo che dialogo e tolleranza non significhino abdicazione o impossibile ricerca di modi d’essere, status sociali, stili di vita completamente avulsi da un terreno di coltura. Se la pianta non è radicata in un humus più che fertile prima o poi avvizzisce, muore. Circa due secoli fa Donoso Cortés parlava di “negazioni assolute ed affermazioni sovrane”, espressione che suona rimprovero al regime della mediazione che caratterizza l’affarismo delle democrazie assoggettate al mercatismo ma, nonostante tale costume diffuso, proprio oggi appaiono più fondate che mai le ragioni del decisionismo radicale. È questa, a ben vedere, la contraddizione più tangibile del nostro tempo che è quello  delle grandi decisioni nel quale le suggestioni della nostalgia si coniugano assai male con le attrazioni per un possibile “dover essere”.

La riflessione storica e politica di Romualdi è certamente un punto di riferimento per chi cerca delle risposte radicali nel contemporaneo movimento delle idee, caratterizzato da una malsana indulgenza verso un certo rifiuto nichilistico a cui Romualdi ha inteso reagire respingendo la logica compromissoria dell’egualitarismo e della massificazione, la mercificazione dell’anima e della mente, lo scempio della “nostra” Europa, la profanazione della Tradizione, la dissacrazione della memoria storica dei “vinti”, la negazione delle più intime ragioni della vita dell’uomo, nel più complessivo intento di adeguare i “valori di sempre” alla mutevole realtà.

È questo il patrimonio ideale che un’intera generazione ha fatto suo; quella generazione nata agli inizi degli anni Cinquanta che ha considerato Romualdi un “fratello maggiore”, orfana di padri nobili; e per tale generazione,  il giorno in cui è morto un amato giovane studioso segna  la data dell’inizio di un cammino “fuor di tutela” che avrebbe visto le idee di Romualdi percorrere itinerari diversissimi con le gambe di giovani intellettuali che comunque la sua “lezione” non hanno dimenticato con il passare del tempo.

Il problema delle radici, delle origini, connesso alla ricerca di un’identità unitaria degli europei è stato il grande assillo e la grande passione di Romualdi. Pensando per grandi spazi e forte di una concezione geopolitica che superava gli angusti limiti del nazionalismo, Romualdi riconnetteva alla questione dell’unità europea un’importanza primaria. Si trattava, a suo giudizio, di dare un senso compiuto all’idea dell’Europa riscoprendo le ragioni e gli elementi remoti del suo essere e proiettandoli nel presente e nell’avvenire in modo tale da dare il senso di una comunità compiuta sotto il profilo culturale, storico e politico.

Compito non facile dal momento che Romualdi stesso non si nascondeva che per taluni la tradizione europea si identifica con il razionalismo, mentre per altri con il cristianesimo e per altri ancora con la classicità. Tutti aspetti, comunque li si voglia considerare, limitati e particolari. Molto più indietro si deve risalire, secondo Romualdi, per ricavare dall’intero complesso della storia spirituale europea il senso di una tradizione. Romualdi indica nel mondo indoeuropeo il principio unificatore dei popoli del Vecchio Continente. Un mondo caratterizzato da un ordine spirituale che si fonda sull’ineguaglianza e sugli elementi aggregativi naturali: la famiglia, la comunità di appartenenza, lo Stato, la religione, il diritto. “A quest’ordine indoeuropeo – osserva Romualdi – collaborano sia lo spirito dell’uomo, sia le più alte potenze. L’intelligenza umana non è contraddetta, ma completata, dalla presenza di una intelligenza della natura e dell’universo. Di qui l’imperativo che spinge questa razionalità umana a farsi azione, unificando nella sua lotta i motivi dell’ordine umano e di quello divino”.

Siamo in presenza, com’è facile notare, di una concezione sacrale dell’esistenza. Concezione che scandiva, nei cosiddetti “tempi tradizionali”, il corso dell’anno, le celebrazioni, le regole morali e spirituali, perfino la coltivazione dei campi e la cura delle case: un ordine cosmico nel quale l’uomo viveva come membro di una  aggregazione consapevole di avere un differenziato destino dalle altre comunità.

L’ordine indoeuropeo ha conosciuto aurore e tramonti, riapparizioni fugaci ed oblii persistenti, latitanze di secoli e sprazzi di luce. Comunque la sua vena sottile non è mai morta del tutto. Anche oggi, in mezzo a noi, quell’ordine metafisico vive nella costante possibilità della rinascita: bisogna saperlo riconoscere’ nelle forme mutate e, se possibile, adeguare la prassi politica alla metapolitica dei comportamenti.

Anche la considerazione che Romualdi aveva dei movimenti nazionali europei sorti e sviluppatisi tra le due guerre rimanda allo schema di valori primari tipici della civiltà europea ed in questo senso egli ha affrontato la critica alle ideologie egualitarie ed illuministiche. Nel saggio Il fascismo come fenomeno europeo scrive: “Il fascismo non fu solo una dottrina espansionistica. In esso s’incarnò la nostalgia delle origini in un momento in cui si manifestavano delle tendenze livellatrici di ogni struttura organica e spirituale. Cioè a dire il fascismo fu la reazione di una civiltà moderna che rischiava di perire proprio per eccesso di modernità”. La fine del fascismo, comunque, non ha mai costituito un valido motivo per Romualdi per piegarlo all’accettazione della storiografia della disfatta, né per fargli considerare il fascismo una “parentesi” nella storia europea.

Lo studioso ha piuttosto contemplato la decadenza con lo spirito militante della rinascita, con l’attitudine di chi sa che oltre il buio del presente vi sono orizzonti che vanno scorti, costi quel che costi. L’orizzonte della rinascita europea per Romualdi non poteva che essere la ripresa di un mito, di una “grande politica” quale espressione di una volontà di potenza.

Ecco perché lo schema di aurore e tramonti, caratterizzante la storia europea, e del quale Romualdi aveva piena coscienza, non ha mai determinato in lui l’accettazione del nichilismo come condizione ineluttabile dell’uomo europeo. Nietzscheanamente fedele alla visione ciclica della storia, Romualdi ha sempre creduto negli eventi storici rigeneratori della coscienza e della vita dei popoli. La stessa considerazione dell’avvento dei movimenti fascisti è il sintomo più evidente dell’applicazione di un “metodo nietzscheano” all’analisi dei grandi avvenimenti. E così pure, derivata da Nietzsche, in Romualdi è la concezione di una “grande politica” a cui frequentemente, agli inzi degli anni Settanta, richiamò la destra italiana. Dagli scritti di Romualdi – ed in maniera particolare da quelli che qui di seguito riproponiamo – emerge in maniera evidente che la sua milizia culturale e civile si è interamente proiettata nel dare pratica attuazione ad un progetto ideale ed esistenziale: la formulazione non di una teoria, di una dottrina, di una ideologia, bensì di una visione del mondo e della vita.

I “Leitbilder”, le immagini conduttrici che Romualdi ha inseguito nel suo itinerario intellettuale sono state tutte parte di una Weltanschauung da lanciare non soltanto come sfida al nostro tempo, ma anche quale proposta “attiva” e concreta di rinascita spirituale. La visione del mondo è lo spartiacque ultimo e necessario di fronte alla babele, linguistica e concettuale che domina la nostra epoca. Non si tratta con questo di evitare la comprensione delle lacerazioni esistenti in altre appartenenze, di aprirsi al mondo, di giocare su medesimi tavoli partite culturali e politiche. Riaffermare la validità e la persistenza della visione del mondo quale discrimine di differenti identità è piuttosto un modo per riconoscersi, per sapere dove si vuole andare e con chi costruire. Visione del mondo può e deve essere sinonimo di aggregazione.. Alcontrario tutto sarà più difficile; la prospettiva nichilistica è sotto i nostri occhi.

Cosa sono mai la “nuova cultura” e la “grande politica” se non l’attuazione di una visione del mondo che contiene in sé – pur nella mutabilità delle condizioni operative – le chiavi di una progettualità culturale e civile? A cosa si riduce l’affanno nella precisazione di nuove essenze della politica se manca lo scenario ultimo nel quale poterle far vivere? Il démone dell’intellettualismo che da circa tre secoli contamina l’Occidente sembra aver attecchito anche là dove nessuno avrebbe immaginato: è una vittoria della civilizzazione borghese, scaturita dal razionalismo illuministico, che ha sostituito la dittatura dei philosophes alla tensione spirituale con tutto quello che questa parola significa. “Una volta il pensiero era Dio, poi divenne uomo, ora si è fatto plebe” , scriveva Nietzsche.

La metafora nietzscheana rende efficacemente il clima ed il contesto odierno. Un mondo di assenze è intorno a noi. Ma è difficile, impossibile, abituarsi a convivere con il nulla. Soprattutto per quanti, come ritiene Adriano Romualdi, alla perennità dei valori della civiltà europea non cesseranno di credere.

L’opera romualdiana, sia pure incompiuta, è tutta intrisa delle tematiche accennate. In maniera quanto mai efficace lo sono due brevi scritti più volte riproposti: La Destra e la crisi del nazionalismo e Idee per una cultura di destra. Entrambi i saggi chiariscono – in una certa misura – quali possono e devono essere gli elementi supportanti una “nuova cultura” ed una “grande politica”. Essi vanno letti in prospettiva, naturalmente. E soprattutto tenendo conto che la destra italiana, nelle sue componenti  più colte e dinamiche ha  abbandonato il bagaglio nostalgico-ritualistico, il vuoto e viscerale (oltre che sterile ed alibistico) anticomunismo, la discutibile forma mentis vittimistica riscoprendo seriamente le proprie radici, superando le tentazioni di chiusura e di diffidenza, aprendosi ad una nuova concezione dell’Europa, dei blocchi e del Terzo Mondo.

Romualdi ha visto prima degli altri quel che sarebbe accaduto. E ciò che noi osserviamo è quanto lui ci indusse a credere. Per tutto questo egli è vivo e sarebbe bene che non lo si dimenticasse.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.