• 27 Luglio 2024
Diario

La tormentata storia intellettuale del Novecento europeo ha vistoallineati uomini che i sentieri dello spirito li hanno battuti con ardore e passione, spesso restando impigliati in un viluppo di tortuose strade che faticosamente sono riusciti a percorrere. In quei sentieri hanno comunque lasciato la loro traccia – e questo è il valoreprioritario che rivestono. E pure nell’attraversamento di questo secolo hanno avuto il coraggio di manifestarsi per quello che sono e sono stati: consapevolmente incompresi per il solo fatto di essersi posti là dovenon c’è nessuno. Ernst Jünger, il più grande scrittore tedesco del secolo scorso, è tra questi. Rappresentante della “gente di sinistra della destra”, come disse di lui Hans Grimm, Jünger assolutamente sfuggente a tutte le categorie intellettuali e politiche è proprio per questo un autore cruciale del XX secolo, riassumendo nella sua opera che è autentica “creazione poetica” secondo Armin Mohler, l’inquietudine di un secolo al quale se non ha dato risposte certamente ha indicato orientamenti validi “per tutti e per nessuno”, com’è nel costume di chi ha vissuto Nietzsche nel profondo.

Jünger è stato nel Novecento il solo intellettuale europeo capace di continuare a percorrere quei sentieri dello spirito che fino ad oltre mezzo secolo fa erano percorsi da innumerevoli “coscienze”’ della vecchia Europa e come tale è l’ultimo rappresentante di un mondo che ha visto tanti uomini capaci di racchiudere in loro l’anima del sapiente e quella dell’antico guerriero e farle mirabilmente convivere.

Sapiente e guerriero Jünger appare anche a chi pur non avendo eccessiva consuetudine con i suoi scritti e purché abbia rimosso meschini pregiudizi, sappia riconoscerlo per quello che è, secondo un itinerario che dai tempi di Tempeste d’acciaio a quelli più vicini de Il problema di Aladino non ha cessato neppure per un istante di considerare la trincea il suo tempio nelle pur mutate condizioni storiche, culturali e civili.

È per questo che il Novecento lo ha visto senza alcun dubbio partecipe, da protagonista e da testimone, delle aurore e dei tramonti che da oltre ottant’anni segnano i destini della Vecchia Europa. Sugli incerti orizzonti del Terzo Millennio, Jünger si staglia solitario, ultimo di una generazione di grandi di questo dopoguerra riuscendo ancora a dare un senso compiuto e mai banale della parola, attraverso la quale sa condursi e condurci per i sentieri dello spirito.

Molti anni  fa, a Palermo Jünger parlandomi  dei suoi viaggi e mi disse: “Mi definisco rerum novarum cupidus. Èun’abitudine, una bramosia, una voluttà. Ho sempre desiderato il nuovo. Sono un viaggiatore che corre, corre per raggiungere cose che svaniscono come la sera”.

Questa definizione di sé stesso potrebbe valere per definire tutto l’itinerario intellettuale ed esistenziale di Jünger che della figura dell’’Anarca – unica figura non illusoria nel suo panorama – ne ha fatto una sorta di “tipo ideale” mettendola al centro della concezione realistico-eroica a cui ha improntato la sua opera.

L’Anarca è Jünger stesso. Ma anche chi come lui tende – e magari riesce – ad essere e restare “il solitario congiurato al di là di ogni solidarietà sociale”, secondo l’immagine proposta da K.H. Bohrer. Più semplicemente, per Jünger  l’Anarca. che si oppone all’“Anarchista”, è colui che “ha bandito da sé stesso la società”, che è in grado di opporsi, in una sorta di rappresentazione eroica, al cosiddetto Stato universale nel quale campeggiano i nuovi titani (le figure illusorie) e gli automi prefigurati in Heliopolis. Mi disse ancora a Palermo : “L’Anarca non si mostra, non ha bisogno di mostrarsi. È immobile, profondamente radicato in sé stesso di fronte agli sconvolgimenti, ai movimenti geologici come la guerra atomica”. L’Anarca è dunque l’esplicitazione moderna, “ultima”, dell’uomo nietzschiano – della figura simbolica del Viandante – assolutamente capace di coltivare l’amor fati, di accettare il destino senza farsi travolgere.

Nella post-fazione a Eumeswil1, Maria Teresa Mandatari osserva che l’Anarca “privo di rapporti, si oppone all’anarchista perché questi, associandosi con altri, ha ceduto la propria libertà e indirettamente dipende dalla società di cui si dichiara nemico. L’Anarca non è nemico di nessuno, perché qualsiasi presa di posizione gli è estranea; e nemmeno amico dato che “tutti sono traditori potenziali”.

L’Anarca domina su tutta la produzione ultima di Jünger, ma anche in quella precedente si scorgono significative anticipazioni. Per esempio, quando spiega, come riferisce Marcel Decombis, che cos’è il Lavoratore, altra figura tipica dell’universo jüngeriano: “Noi non abbiamo voluto vedere nel lavoratore – dice – il rappresentante di una nuova classe, di una nuova società, di una nuova economia, perché egli non è niente se non è più di tutto ciò, ovvero il rappresentante di una forma particolare agente secondo leggi proprie, che segue una propria missione e possiede una propria libertà”.

Ma là dove la visione aristocratica ed “inattuale” dell’Anarca si esplicita  senza che vi compaia come palese riferimento, è forse nell’ultima opera letteraria (ma perché non anche filosofica?) di Jünger. Il problema di Aladino (ultima nel senso di “visione del mondo” cui qui ci si riferisce, perché dopo ha scritto Un incontro pericoloso, incredibile e godibile romanzo improntato alla “metafisica del crimine” e Due volte Halley, dedicato al suo viaggio in Estremo Oriente  per vedere il passaggio della famosa cometa).

Il problema di Aladino non a caso viene generalmente ritenuto il romanzo di Jünger più “jüngeriano” degli ultimi anni. In esso lo scrittore sottolinea con maggiore incisività il suo essere nichilista in un mondo paradossalmente avvolto da un oscuro senso di dissoluzione. Per un nietzscheano  la sola scelta possibile è l’accelerazione dei processi dissolutori con una spinta possibilmente più forte. È l’atteggiamento del protagonista del Problema di Aladino,spirito stirneriano consapevole di vivere in un mondo a lui estraneo che, comunque, cerca di dominare.

Friedrich, giovane rampollo di una famiglia prussiana, cresce e si afferma nell’esercito cella Polonia comunista fino a che non decide (coraggiosamente ma anche nichilisticamente perché consapevole di non trovarvi ciò che cerca e certo di dover ricominciare daccapo in tutti i sensi) di passare in Occidente. Studia, si sposa, si adatta a convivere con l’indigenza finché non comincia a lavorare ed ottenere successo nell’agenzia di pompe funebri di un suo parente.

Un giorno s’imbatte in una grande idea. L’incontro con un artista, versato nella realizzazione di monumenti funerari è decisivo. Questi gli parla dell’abbandono dei cimiteri, dello stile egualitario delle lapidi, del disconoscimento della morte nel mondo. Da queste considerazioni la nascita di un progetto ambizioso a cui si dedica, dopo aver reperito i capitali, con tutte le energie: l’edificazione di uno sterminato cimitero centrale del pianeta da situare in Turchia, un immane club di morti affluenti da tutti gli angoli del globo. Manco a dirlo l’impresa si chiamerà “Terrestra”. Se nessun luogo di sepoltura è garantito per sempre, considera Friedrich, una grande necropoli planetaria può certamente garantire il riposo eterno.

La multinazionale delle pompe funebri cresce a dismisura, tutti, singoli cittadini chiese, sette e conventicole, accorrono a prenotare un posto per l’eternità. Intorno al cimitero sorgono alberghi, aeroporti, banche, uffici. Il sogno è divenuto realtà. Ma proprio in questo momento che dovrebbe essere di gioia e di appagamento, Frederich si estranea dalla sua “creatura”. L’anima del vecchio nichilista avverte l’inanità di ciò che lo circonda e di ciò che egli stesso ha messo in opera. “Quanto più il progetto si attutava – osserva – tanto meno io vi partecipavo interiormente ed esteriormente. È il destino di tutte le utopie – un Leonardo e anche un Jules Verne vedevano il volo in modo diverso da noi che lo abbiamo realizzato. Nei sogni viviamo più intensamente; in essi sgorga e termina la nostra forza. Il mio nichilismo contribuì al malumore”.

A Frederich non basta la convinzione che la cultura si estingue con la decadenza delle tombe e quindi bisognerebbe mettere riparo a tale deprecabile fenomeno; si avvede anche che il culto dei morti diventa soprattutto affarismo: dunque la modernità vince ancora e sempre. L’abbandono si fa strada. Indugiando nella stazione del nichilismo la paura accresce il turbamento di Friedrich che non può fare a meno di analizzare: “Per il singolo, per la persona, questa condizione è sempre esistita; ma le misure titaniche non ci sono ancora familiari. Quando una malattia si fa sena e incombe l’annientamento, cadiamo in preda alla disperazione. Per le sofferenze spirituali ciò è ancora più vero che per quelle fisiche. Che cosa sono al confronto la ricchezza e i successi che la “Terrestra” mi ha consentito di vivere? Diventano un fastidio, e con loro la società si cerca un buco in cui rintanarsi”.

E se questo “buco” fosse proprio il sogno? I simboli e le vicende che affollano la conclusione del romanzo di Jünger adombrano proprio questa ipotesi.

Con Il problema di Aladino lo scrittore tocca il punto più alto del consapevole nichilismo che sta davanti all’Anarca. A questo punto non so se si può dire che Jünger abbia tracciato una via. Certo egli ha tentato il passo più ardito che si potesse immaginare. La sua vita è stata un breviario di tentativi che stanno ad ammonirci quanto faticoso, ma pure quanto appagante possa essere l’imboccare la strada del rifiuto aristocratico. In fondo, proprio quando si sono consumate tutte le speranze – ed è il dato del nostro tempo – resta la vitalità della spirito. E Jünger lo sapeva.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.