“Livorno è per me l’infanzia: è Annina, è la madre. Genova, invece, è mézigue (mestesso). Con Roma, anche se ci vivo da anni e non so staccarmene, non lego molto: non è il mio ambiente, manca il paesaggio industriale a me tanto caro, manca il porto, mancano le navi”. Ecco il biglietto da visita di uno dei più grandi poeti del Novecento, rimasto straordinariamente umile. Da Anna Picchi, sarta, e dal ragionier Attilio Caproni nasce Giorgio (1912-1990). Livornese di nascita, genovese di adozione, romano per necessità artistiche, in continuo peregrinare da una scuola all’altra. Sì, perché Giorgio Caproni ha svolto per trentotto anni il lavoro di maestro elementare, passando, come sanno gli insegnanti d’Italia, da un istituto all’altro, senza tralasciare l’attività letteraria che lo ha collocato nell’olimpo italiano della poesia. Suo malgrado, perché era un uomo schivo, malinconico, riservato, stupito del clamore che lo circonda, specie negli ultimi anni di vita, quando riceve encomi, premi e riconoscimenti pubblici a cui non riesce ad abituarsi. Non ha dimenticato o nascosto, le origini modeste; i lavori umili e saltuari ( fattorino in uno studio legale); le rinunce significative ( studiava con successo il violino); la fatica di conseguire il diploma all’Istituto Magistrale, dopo aver frequentato un istituto tecnico.
La vocazione all’insegnamento si palesa presto e ne andrà giustamente fiero: «Mi sono accorto quanto poco siamo stimati noi maestri elementari, proprio grazie ai miei… successi letterari. “L’Europeo “in prima fila s’è chiesto come mai io, nonostante tutto, faccio il maestrino di scuola. Come se fare il “maestrino di scuola” fosse un “mestieruccio”, e comunque fosse più facile che “fare” il poeta.» (“Registri di classe”) Tuttavia non è facile neppure fare il poeta. E in Italia. Qui negli anni Venti e Trenta del Novecento si impone la poetica ermetica, criptica e impenetrabile, fino agli anni Sessanta e Settanta dominati dalle neoavanguardie (Gruppo 63) che prediligono la poesia decostruita, oscura, scardinata nelle forme più tradizionali, di difficile interpretazione. Tale tecnica non appartiene al Nostro, che assegna alla parola il compito specifico di comunicare, di informare, di indagare il mondo interiore e la società, con tutte le sue contraddizioni, ma soprattutto di spingere all’azione. La poetica caproniana richiama più Saba o Gatto, che non Ungaretti e Montale. Non esitiamo, tuttavia, a definirla indipendente e originale, caratterizzata da una sottile ironia unita ad una velata e intimistica melanconia che lo distingue sì dai giganti del tempo, ma tra i quali va annoverato. È una voce fuori dal coro, altrettanto potente.
Le tematiche sono affrontate con semplicità, che non significa superficialità, semmai sobrietà e misura. Insomma la “nobile semplicità e quieta grandezza” dei classici. Ad esempio, la figura materna nella raccolta più significativa che prende il titolo – Il seme del piangere – da un verso del Purgatorio dantesco, è associata alla riflessione sulla morte e sulla nostalgia. La stanza dove lavorava/tutta di porto odorava /che bianche e vive folate/v’entravano, di vele alzate! /Prendeva di rimorchiatore, /Battendole in petto, il cuore. /Prendeva di rimorchiatore, /battendole in petto, il cuore/ Prendeva d’aperto e di vita, /Il lino, tra le sue dita. / Ragazzi in pantaloni corti, /E magri, lungo i Fossi, /aizzandosi per nome/giocavano, a pallone. / (Annina li guardava/Di sottecchi, e come/– di voglia – accelerava/l’ago, che luccicava!). (La stanza)
Alla madre, prima ispiratrice, è legata anche la rievocazione dei luoghi d’origine o, meglio, delle città in cui ha vissuto.
“Livorno, quando lei passava/d’aria e di barche odorava. / Che voglia di lavorare/nasceva, al suo ancheggiare. / Sull’uscio dello Sbolci, / un giovane dagli occhi rossi/ restava col bicchiere/ in mano, smesso di bere”. (Quando passava). Impossibile non ricordare i versi di Guido Cavalcanti: “Chi è questa che vien, ch’ogni om la mira/ e fa tremar di chiaritate l’aere.”
A Livorno Giorgio vivrà il primo decennio di vita non privo di difficoltà derivate dal primo conflitto mondiale. Annina provvede a mantenere i figli mentre il marito combatte al fronte. Il trasferimento a Genova (1922) segnerà una svolta decisiva. Il capoluogo ligure diventerà il luogo del cuore: “La mia città dagli amori in salita, /Genova mia di mare tutta scale.” (Sirena, 1-2). Un’inesauribile fonte di ispirazione, una componente lirica ritenuta omerica da molta parte della critica letteraria. Forse per la presenza del mare, non di rado popolato di figure femminili assurte al rango delle mitologiche Nereidi: “Sei donna di marine, /donna che apre riviere. /L’aria che apre mattine/ bianche, è la sua aria/ di sale- e sono vele/ al vento sono bandiere/spiegate al bordo l’ampie/vesti tue così chiare. (Donna che apre riviere)
Il mare è un elemento che accomuna Livorno e Genova, passato e presente. Due categorie temporali vissute in modo conflittuale. Prova ne è il ritorno a Livorno, dopo ben ventisette anni, per ritrovare la tomba dei nonni, ma anche barlumi di ricordi: “Scendo a Livorno e subito ne ho l’impressione rallegrante. Da quel momento amo la mia città, di cui non mi dicevo più…”
Altrettanto significativa per Giorgio Caproni è Roma, che lo affascina dal punto di vista artistico, testimonianza di una bellezza artistica senza tempo e di una grandezza che l’hanno resa caput mundi. La città eterna diventa luogo di incontri fondamentali per l’affermazione della sua Poesia. Citiamo solo alcune delle figure di maggior rilievo: Libero Bigiaretti, Piero Bargellini, Giorgio Bassani, Giacomo Debenedetti, Pier Paolo Pasolini e Carlo Betocchi. A quest’ultimo sarà legato da duratura amicizia, colui che più degli altri contribuì all’inserimento del Maestro Caproni nel panorama poetico italiano.
Intervallato da brevi soggiorni a Genova, quando la solitudine e la malinconia diventano intollerabili (qui ha lasciato la moglie, Rosa Rettagliata, immortalata nei versi come Rina, la “nuova speranza”.) il periodo romano lo vede vagabondare da un quartiere all’altro, in case fatiscenti. Ma l’attività artistica prosegue ininterrottamente concentrandosi su tematiche concrete, quotidiane, soprattutto sulla guerra che, pur non prevalendo nelle raccolte Cronistoria, Sonetti dell’Anniversario, Stanze della funicolare, ne costituisce lo sfondo. Giorgio non l’affronta in modo violento o cruento. Attraverso un’intima elaborazione del lutto mondiale ne coglie le più lievi sfumature. Nelle ultime liriche della raccolta Passaggio di Enea, la guerra diventa spazio e tempo in cui collocarsi e collocare la collettività che, ridotta allo stremo, sa risollevarsi.
Nessun eroismo o gesta eclatanti. Tutto si consuma in una dimensione intimistica di cui il lettore si sente protagonista.
All’insegna di un percorso anti- eroico viene cantata anche la figura di Enea. Ispirato da una statua di Baratta in piazza Bandiera a Genova, Enea che reca in spalla il padre Anchise e il figlioletto Ascanio per mano, il Maestro non legge alcun atto di eroismo in questa scena, consegnata alla storia letteraria dalla fantasia di Virgilio. Nell’eroe troiano vede un uomo disperato, che ha perso la moglie e cerca con tutte le sue forze di salvare quello che gli rimane. Anche il Poeta, come Enea, deve mettersi continuamente in viaggio, affrontando nuove prove, nella vita come nell’arte. Con quest’ultima il rapporto è stato spesso dimidiato, tanto che, dopo aver composto il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee in cui afferma il distacco dalla vita, nell’ultima fase della sua ampia produzione, nei volumi Il muro della terra, Il franco cacciatore, Il conte di Kevenhüller, compone versi scarni e dilatati. Siamo nel periodo senile, in cui Giorgio è ripiegato su sé stesso, distante dal mondo visto come un deserto.
Una riflessione a sé stante merita il legame con il mondo della scuola.
È ampiamente apprezzato come poeta, traduttore, saggista, critico letterario, articolista, autore di Lettere, eppure a lui interessa una sola cosa: insegnare. Per fare il maestro accetterà continui trasferimenti lungo la penisola, cominciando da Rovegno, in Val di Trebbia, per approdare infine a Roma presso la scuola Francesco Crispi, dove resterà fino al pensionamento.
Nel frattempo il mondo è stato sconvolto da un’altra devastante guerra, alla quale il Caproni partecipa prima come soldato, successivamente come partigiano. Riprendendo l’insegnamento, per arrotondare lo stipendio, assolutamente inadeguato, (allora come oggi: non è cambiato nulla!) diventerà correttore di bozze. In fondo, a correggere è abituato. Lo apprendiamo dai “Registri di classe: una raccolta, pubblicata postuma, di annotazioni sugli scolari; riflessioni sulla didattica; considerazioni sulle problematiche dei ragazzi e delle loro famiglie; proposte metodologiche, suggerimenti, consigli pratici sull’insegnamento, coprendo un arco temporale di circa un quarantennio di docenza, durante il quale il volto dell’Italia è mutato. Il metodo di insegnamento è innovativo per i tempi. Segue molto da vicino i piccoli scolari, per ciascuno dei quali, in base ai diversi bisogni, adotta strategie differenziate, pur di portare tutti al medesimo livello di apprendimento. Oggi abbiamo inventato la parola inclusione. Non ama le punizioni corporali: la sua autorevolezza di Maestro doma le intemperanze, quando presenti.
L’attività artistica non confligge con quella di maestro elementare. Due mondi che tiene separati: non scrive specifiche poesie sulla scuola e rifugge da qualsiasi clamore intorno alla sua figura di poeta. Ne abbiamo diretta testimonianza nel Registro dell’anno scolastico 1959-1960: «La Rai ha trasmesso alcuni miei versi. Sorpresa degli scolari, già colpiti dall’intervista di un quarto d’ora alla tv, dove sono state lette alcune poesie mie, da me commentate, tratte da Il seme del piangere, premio Viareggio 1959. Potenza della radio e della tv! esclamo ironicamente. Ma ho subito smontato i miei piccoli… ammiratori: “Sono il vostro maestro, e vogliatemi bene come tale”. Il resto… è letteratura!»
È attento a creare un clima distensivo, il più idoneo possibile all’apprendimento, ma è refrattario alle incombenze burocratiche: un ostacolo non da poco anche nella scuola moderna. Perciò: «Più che tracciare un piano di lavoro da seguire punto per punto, credo (…) che per questo primo mese non mi resti altro da fare che chiamare a raccolta tutte le poche virtù che posseggo, e di puntare soprattutto su quell’amore (amore eguale comprensione, eguale intelligenza, eguale conoscenza) che senza dubbio è il primo “sesamo” capace di schiudere ogni porta e di sciogliere ogni nodo. Capire, più che studiare, i bambini di fronte ai quali mi trovo; e capire, più che studiare, me stesso, in modo da potermi adeguare a loro.» (1964-1965)
Nel congedarci dai lettori più pazienti che ci hanno seguito fin qui, ci piace riportare alcune significative citazioni: «Ho letto ai miei scolari le poesie di Carducci: Teodorico e il Parlamento. L’effetto è stato sorprendente, contrariamente alle mie aspettative. Devo aver più fiducia in loro e in me stesso» (1952- 1953)
La scuola “logora”. Arrivo a casa sfinito. Ma con tutto questo, amo la scuola, e chissà se saprei abbandonarla davvero, come tante volte mi sono proposto di fare.
(1962-63)
«Gli esperimenti “sul buon contegno”, malgrado certi casi che certamente non saranno incorreggibili ma che mi fanno disperare, danno i loro primi buoni frutti. Ma com’è difficile per un insegnante, com’è faticoso perseverare! Coraggio» (1946-1947). Sì, insegnanti d’Italia, coraggio! Buon anno scolastico.