La dimensione interna del mercato europeo delle imprese, presenta risvolti differenti e divergenti rispetto agli Stati Uniti, al Canada, alla Cina anche all’India che sta prendendo piede, in ambiti un tempo prerogativa del Made in Italy, come la Fast Fashion, tale da ridurre le nostre aspettative di profitto e occupazionali.
Inoltre, la dimensione esterna delle imprese europee si confonde in una incapacità futura di sbocco, non solo per mancanza di strategia di Marketing Oriented, ma anche per una carenza di idee incentrate ed integrate sullo sviluppo univoco e unitario comunitario.
I temi sostenuti dall’Europa sulla transizione energetica, e tecnologica ,non sono basati sull’innovazione e il potenziale di ricerca, volta ad una politica di ragguardevole, sostenibilità del Mercato Unico, la cui sovranità monetaria denota un avanzamento politico di integrazione che punta agli investimenti, ma resta comunque indietro rispetto, ai suddetti citati Paesi, non solo per scambio monetario, non più unilaterale con il dollaro ma anche perché già utilizzano forme monetarie tecnologiche rispetto all’Europa.
Inoltre, la frenata degli extraprofitti delle banche europee, pur consentendo una disciplina maggiore con l’avvento dell’euro digitale, penalizza lo sviluppo dinamico e avanzato degli scambi in un libero mercato, visto l’ingresso dei Brics.
La dimensione globale delle imprese europee è di fatti penalizzata, la dottrina politica sta cercando una sua duplice dimensione esterna, sia essa progressista che una dimensione riformista conservatrice, ma si scontra con una dinamicità virulenta legata ad una tematica di sviluppo avanzata. Infatti, sebbene i progressisti auspicherebbero ad un potenziale accrescimento dimensionale delle imprese esistenti, per rilanciare l’economia, comunque la loro teoria cozza con il mercato reale delle imprese europee, che punta ad una scalabilità numerica di profitto e si vuol posizionare tra i primi 50 gruppi mondiali.
La produttività delle imprese è da sempre legata alla loro dimensione interna ed esterna al mercato di riferimento, le piccole medie imprese italiane, infatti, risentono degli shocks esterni, siano essi il prezzo energetico siano la insostenibilità della filiera lunga, che implementa i costi di gestione ed energetici, e le minacce di ingresso in un mercato il cui potere di sbocco è correlato alla dimensione produttiva e di distribuzione dell’impresa stessa.
Le imprese europee si trovano a gestire queste difficoltà, non solo per una dimensione minore, ma anche perché, fanno riferimento ad una utenza consumatrice che da un punto divista minore non riesce a rispondere ad un’offerta prodotta maggiore, ma se la “Legge degli sbocchi” o anche detta “Legge di Say”, economista francese Jean Baptiste Say (1767-1832), coglieva in verità, che “L’offerta trova sempre la sua domanda”, in verità oggi, in una globalizzata visione di mercato, è difficile forzarne l’efficacia di mercato, per giungere ad una progressiva crescita economica, non parliamo più di un semplice mercato di compratori e venditori razionali, ma si tende ad una soddisfazione diretta dell’utente, ad un nuovo ricco mercato, benché libero, non sempre spalanca la sua efficienza di domanda, se non sei in grado, in qualità di impresa, di soddisfarne le potenzialità ed aspettative del consumatore.
Ovvero, in un lancio di un nuovo prodotto, sebbene presentato verso miliardi di individui, la potenzialità di acquisto, si riduce, a poche decine di milioni di individui compiacenti, ne possiamo concludere che se le imprese europee si rivolgono al mercato internazionale, per loro impostazione dimensionale, si trovano in difficoltà di crescita e di sviluppo, per la disposizione di mercato unico, attuale, si trovano in una dimensione ridotta di aspettative di acquisto.
Pertanto, bisogna riformulare la dimensione in primis del mercato Europeo, e integrarlo con la dimensione delle imprese oggi esistenti, solo in questo modo favoriamo la crescita e la stabilità di bilancio dei governi di riferimento comunitario.
Ovvero, bisogna riprendere uno sviluppo di norme che si completi in un sistema comunitario unico, e che rispecchiano una volontà unanime di intenti in termini di bilanci, di fisco, in termini azionari, e possibilmente di norme che spingono e moltiplicano la suscettibilità di investimento ovunque in Europa senza temere diritti divergenti e fallimenti impossibili da gestire, a causa della burocrazia e lentezza giuridica.
La crescita deve partire per le imprese europee dalla possibilità di dotarsi di norme societarie comuni e sviluppi omogenei che non siano formulate con gradienti progressisti che sminuiscono il profitto riducendolo, a disponibilità comunitaria.
La Nazione, Europa, può nascere, moltiplicando il senso comunitario del mercato, ma non rendendolo omogeneo per incentivi e sviluppi, l’intrapresa è pur sempre uno spirito sociale, che deriva dal diverso e si fonda sulle diversità con resilienza ed inclusività di sviluppo e crescita, per un’identità rivolta ad eccellenze uniche di mercato.
Quindi per lo sviluppo e la crescita delle imprese europee, per divenire alla stessa stregua di quelle americane o cinesi, devono favorire un potenziale di integrazione di mercato unico per renderle competitive su larga scala, la prima barriera da superare è il coordinamento istituzionale tra i governi e renderli riformisti conservando le loro esclusive identità, rafforzando le politiche economiche comuni, con obiettivi di interesse europeo, non solo a carattere di produttività, e di dimensione aziendale, ma anche a carattere di competitività, la competitività, deve confrontarsi con il superamento finanziario di investimento minimo dell’UE.
Il sistema azionario può essere il mezzo di rastrellamento finanziario, vista l’elevata propensione al risparmio, di alcuni paesi, come l’Italia, consentendo di addivenire a utili che si possono redistribuire al difuori dei meccanismi di limitazione delle semplici politiche europee, o di politiche interne restrittive.
L’Unificazione del mercato di imprese europeo, pur godendo di una sorveglianza favorevole, non deve finire comunque in termini di una oligarchica governance finanziaria, supportata da un semplice risparmiatore, poco integrato e molto poco remunerato, un sistema di azionariato sociale finanziario comunitario, sa di una disfatta di profitti a favore dell’Unione bancaria comunitaria, pilastro di una sedicente realizzazione e crescita delle imprese che non favorisce l’economia reale.
Se le fusioni bancarie sono propedeutiche per un equilibrio del sistema Banca europeo, rendendolo stabile e meno a rischio, la dimensione di crescita delle imprese, eliminando tutte le barriere di ingresso comunitarie esistenti per consentire di crescere e svilupparsi e spingersi in mercati più profittevoli, non sempre crea equilibrio e intesa.
Nell’UE operano circa 32 milioni di aziende dotate di 160milioni di dipendenti complessivamente, con un fatturato di circa 38.000 miliardi di euro, ovvero diciannove volte il debito italiano, l’infelicità di questo accostamento, dati dell’SBS pubblicati dall’Eurostat, consente, senza entrare nel dettaglio delle dimensioni di impresa, di considerare irrilevante concretizzare che è più agevole implementare una crescita che riduca i debiti dell’eurozona, polarizzando, invece, una crescita dell’economia reale e uno sviluppo sociale adeguato ad una occidentalizzazione di impresa che si definisca al pari di quelle atlantiche o asiatiche.
Le discrepanze, nelle macroaree europee, proliferano di un differenziato ruolo e presenza delle grandi imprese europee, che solo l’8% delle imprese dell’eurozona, ha impiegato circa un quinto degli occupati comunitari, 33.1 milioni di cittadini europei, il 21 % del numero complessivo degli occupati, quindi con una disponibilità salariale, che rappresenta quelle decine di milioni di individui che si propongono come acquirenti.
Questo ossimoro di mercato resta deludente, lo sviluppo competitivo deve inoltrarsi in una dimensione esterna non interna e le barriere da abbattere, restano per lo più sperequative sui volumi di profitto delle imprese americane e cinesi che guardano ad un bacino di utenza maggiore, e che attualmente e operosamente come la Cina esportano la crisi economica e di stampo imprenditoriale oltre che immobiliare, ne deriva che crescere non significa oltrepassare un limite, significa consolidare fatturati un tempo equilibrati e ora erosi dal consumismo indiano produttivo e da quello cinese, riduttivo di una qualità poco identitaria.
Inoltre, crescere non significa occupare, o impiegare maggiore forza lavoro, giovane e femminile o esodati di terza generazione, crescere per una dimensione di impresa significa riqualificare il lavoro, renderlo sicuro e duraturo, per una domanda affidabile, che si ridefinisca in un arco temporale certo.
Rimpolpare quella miriade microimprese che sono il tessuto capillare dell’economia italiana e che sta subendo una reductio e una desertificazione della domanda, causa un’offerta abnorme dei mercati cinesi e indiani, o pachistani, maggiori inquinatori mondiali, discarica delle nostre commesse per conto terzi, dove i fiumi reali di rifiuti hanno sostituito, i fiumi di acque un tempo cristalline, ma l’economia è senza una morale di sistema, la governance bancaria di extraprofitti, non insorge per quanto avviene, e la competitività diviene elemento propulsore di sviluppo economico, senza freni inibitori. L’Europa Nazione, deve crescere in uno standard di riferimento sì competitivo ma di qualità dimensionale, con riferimento alla vita e alla sua qualità, alla sicurezza sul lavoro, i conflitti di interesse, sono molteplici, generati da fattori di multinazionali senza scrupoli sociali, e senza una dimensione umana del lavoro.