• 13 Maggio 2024
Cultura

Quando si dice “morale della favola” si intende chiedere quale sia il principio etico che vi si nasconde dietro. Una volta questo cosiddetto “insegnamento” era un tratto onnipresente e distintivo delle favole, come per quelle di Fedro. Lo stesso vale per il messaggio delle parabole evangeliche. Ma la tradizione letteraria e narrativa nel corso del suo sviluppo divenne sempre più complessa tanto da presentare narrazioni dalla morale ambigua se non addirittura quasi assente, come nel caso delle fiabe. Se qualcuno di noi volesse nominarne qualche titolo, sicuramente verrebbe immediato far riferimento al repertorio dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm. “Raperonzolo”, “Cenerentola”, “Cappuccetto Rosso”, “Hansel e Gretel” sono solo alcune delle più famose dei due scrittori tedeschi. Ma la questione è molto più complessa. In un certo senso la produzione narrativa dei fratelli Grimm pone una riflessione sul concetto di moralità, sia dal punto di vista del contenuto, sia per la motivazione storica dietro la loro attività.

Quindi, se Collodi nel suo Pinocchio ha posto un monito etico ben definito del tipo “non si dicono le bugie”, è sorprendente venire a sapere come la produzione dei Grimm si regga proprio su una “menzogna”. I due fratelli infatti non hanno scritto quelle fiabe di punto in bianco, bensì le hanno raccolte e le hanno rielaborate per il pubblico tedesco, rispondendo ad un intento politico. Dopo la caduta di Napoleone e la restaurazione dei regni con il Congresso di Vienna del 1815, La Germania sentiva il bisogno di recuperare un’identità nazionale “rubata” dall’egemonia francese. Un’identità che ovviamente doveva riflettersi nella lingua e nel recupero di racconti popolari, che avessero un’origine ancestrale, che affondassero le radici direttamente nella terra primordiale della Germania stessa. Ed è qui che i fratelli Grimm mettono in pratica la loro bugia, proponendosi come i conservatori delle fiabe popolari germaniche per eccellenza. Ma quest’affermazione è falsa. La fiaba è di per sé un fenomeno interculturale staccato da ogni appartenenza nazionale. Non a caso molti racconti dei Grimm, come Raperonzolo o Cenerentola, hanno dei corrispettivi italiani, come nel caso di “Petrosinella” e “Gatta Cenerentola” del napoletano Giambattista Basile. Altro autore di fiabe è il francese Charles Perrault, che scrisse a sua volta “varianti francesi” di Cenerentola e di altri titoli che entreranno a far parte del repertorio dei due fratelli tedeschi. Eppure in nome di questa riscoperta e difesa dell’identità tedesca, i Grimm hanno sempre sostenuto la presunta origine germanica di questi racconti. In pratica si era preso un fenomeno multinazionale, quello della fiaba, che viaggiava senza limiti doganali da un Paese dell’Europa all’altro, con varianti più o meno legati alla cultura del posto, per poi renderlo un fenomeno esclusivamente nazionale. Questa “germanicità”, quasi pretestuosa, doveva essere evidente anche tramite un uso sapiente della lingua, che doveva rispecchiare la parlata popolare del popolo tedesco, quasi come se i testi fossero redatti “in diretta”, appuntati al momento, senza artifici stilistici, cercando di emulare sempre di più il parlato, addirittura con l’omissione dei nessi logici. Insomma, una vera e propria operazione politica e culturale fatta a tavolino, con una determinazione e precisione maniacale. Il tutto perché c’era da ricostruire un’identità. Una bugia “a fin di bene” si direbbe. Ci si chiede quanto giusta o ingiusta sia stata questa manovra. In effetti c’è un motivo se le fiabe più famose e riproposte anche a livello cinematografico sono quelle redatte dai fratelli Grimm, o comunque ispirate ad esse. Vanno in voga le loro versioni, non quelle dei corrispettivi autori italiani o francesi. Forse dare una connotazione culturale ben precisa ad un fenomeno interculturale e “malleabile” com’era la fiaba prima di loro, ha fatto in modo che questi racconti si cristallizzassero meglio, a lungo andare anche a livello mondiale.


In ogni caso, se si discute del carattere più o meno etico di questa manovra filologica leggermente truffaldina, c’è da chiedersi: dov’è la morale in queste fiabe? Certo la “morale” come la si intende è una caratteristica della favola, più che della fiaba, che ricordiamo si distinguono per tratti stilistici e contenuti. Eppure un autore ha una responsabilità in quello che tramanda e in ciò che scrive. E le fiabe dei Grimm sono incredibilmente crude e inquietanti, quasi gratuite nella loro cupezza. Streghe, Megere, Matrigne, Orfani, figli abbandonati, animali feroci che sbranano persone, persino gente bruciata viva, rapporti incestuosi e una sana dose di quello che in termini moderni si definirebbe “gore”, ossia la violenza con espliciti dettagli di sangue. Ne “La fanciulla senza mani” un padre mozza le mani a sua figlia per salvarsi l’anima dal demonio. In Cenerentola, le sorellastre della protagonista si amputano parti del piede, un alluce e parte del tallone, per riuscire a infilarsi la famosa scarpetta, sporcandola di sangue. Un aspetto così gratuitamente macabro, soprattutto se proposto come contenuto per bambini e famiglie, ha attratto sui fratelli Grimm una serie di accuse e critiche che hanno spinto gli stessi fratelli all’ autocensura e riproporre rielaborazioni più edulcorate o che almeno rimediassero ai finali poco lieti. Per esempio si decise che Cappuccetto Rosso dovesse sopravvivere al Lupo. Ma anche in queste rivisitazioni, la morale è ambigua. Infatti, se è vero che Cappuccetto rosso viene salvata dal cacciatore che, aprendo la pancia del lupo dormiente, la estrae viva e vegeta insieme alla nonna, il finale offre un tocco amaro, con una sorta di retrogusto sadico della vendetta. Per cui la pancia del lupo viene riempita di grossi massi e ricucita. Un secondo lupo viene ingannato e fatto cadere in un pentolone di acqua bollente. Viene da chiedersi il motivo dietro queste scelte narrative. Facendo un confronto, sembra essere più sobria la corrispettiva versione francese di Perrault che, proprio nel finale tragico, nel quale Cappuccetto Rosso viene mangiata dal lupo, mette in guarda i giovani lettori con l’esplicita morale di  “diffidare dagli sconosciuti”.

Certamente l’elemento del Male, del macabro e della violenza non è un elemento da escludere, anzi è necessario qualora funga da monito, come abbiamo visto in Perrault. Tuttavia l’uso così gratuito che ne fanno i Grimm ha attirato, soprattutto nel corso del ‘900, l’indignazione delle famiglie, di associazioni pedagogiche, e accuse di antisemitismo di stampo proto-nazista, come si evince dalla loro fiaba intitolata “L’ebreo nel roveto”.

Così, anche se i due autori restano i primi nomi che appaiono nella mente di chi vuole affacciarsi nel mondo delle fiabe, le stesse sono ancora oggi oggetto di rivisitazioni. Non è un caso che le loro fiabe siano state continuamente modificate ed edulcorate anche dalle grandi case di produzioni cinematografiche, in primis la Disney. Oggi la versione macabra della Cenerentola dei Grimm non rientra nella percezione collettiva della stessa.

Ora, sebbene i racconti spesso sono come gli “ambasciatori” che si limitano a rispecchiare un determinato tipo di cultura e società, quella dei fratelli Grimm, oltre a essere una vicenda di grande rilevanza storico-culturale, impone una riflessione importante. Quanta responsabilità porta con sé un’opera e di conseguenza l’autore che la scrive e qual è il limite entro il quale un’opera possa essere riadattata, rielaborata e rivisitata? Quando è il caso di lasciarla così com’è in quanto frutto di un determinato contesto storico? E ancora oggi sperimentiamo quanto le fiabe siano malleabili come l’argilla. Non si smette mai di ripescarle e di modellarle. A volte insegnano, a volte indottrinano, a volte sono tanto classiche e universali da non poter essere toccate, almeno non troppo. In quel caso ci si limita a fare una sola cosa: raccontarle. E forse è questa la destinazione ideale di qualsiasi racconto, opera o pensiero: la sua universalità, il suo sopravvivere allo spazio e al tempo. Ma per fare questo, la morale che ne si trae deve essere una Morale con la M maiuscola, e forse è una morale che già esiste, che basta solo cogliere nella sua immediatezza. E’ allora che il “genio” emerge in tutta la sua perspicacia, che spesso non risiede in nulla se non in una mente libera, semplice, in grado di guardare la cose come stanno. Per cui forse la genialità non è nella “complessità” delle cose. E’ nel fatto che non tutti vogliono dire e vedere ciò che è semplicemente davanti.

Autore

nasce a Piedimonte Matese, provincia di Caserta, nel 1996. Dopo la laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”, si cimenta nella recitazione, nel doppiaggio e nella regia cinematografica. Contemporaneamente coltiva la sua passione per la scrittura, con la sua prima opera, la trilogia di Partenope, come frutto del suo amore per il mare e come omaggio alle sue amatissime origini siculo-napoletane.