• 3 Dicembre 2024
Note d'Autore

La pratica pastorale non è solo una curiosità romantica del passato ma è conservazione del territorio, consapevolezza della produzione e del cibo, prevenzione da erosione e incendi, ripopolamento delle montagne.Con il riconoscimento come “Patrimonio immateriale dell’umanità da parte dell’UNESCO”, oggi la parola “transumanza” inizia a ricorrere sempre più frequentemente nelle presentazioni turistiche e negli itinerari proposti. Ma cos’è la transumanza? Il riconoscimento, oggi, del valore di questa economia, ben descritta dallo storico francese Fernand Braudel nel suo “La Mediteranee”, che ne coglie la caratteristica di saper perpetuare le risorse necessarie di anno in anno, senza consumarle, affinché possano rigenerarsi per la stagione successiva, arriva dopo una lunga stagione di oscuramento e tradimento delle radici.Per molti evoca la narrazione poetica di ambientazioni immaginifiche, ispirate dalle parole del poeta abruzzese Gabriele d’Annunzio, che in diversi passaggi ha evocato questo periodico andare e tornare delle greggi lungo le vie verdi. Ma la transumanza è stata uno degli elementi portanti di un’economia armentizia che ha fatto la fortuna di intere e vaste aree appenniniche.
Ne sono testimonianza perenne le opere d’arte e l’ambiziosa urbanistica che caratterizzano i borghi disseminati lungo le vie che dall’Appennino vanno alla costa, anche ad alte quote, che sono il frutto della della ricchezza portata da un modello di sviluppo virtuoso, che ha conservato nei secoli la bellezza dei luoghi e la biodiversità.

Eppure, si è dovuto assistere alla corsa a rinnegare l’identità dei luoghi, economie secolari, in favore di un modello di sviluppo che oggi mostra tutti i suoi limiti: sono gli anni in cui trionfava la tesi dell’arretratezza, in cui i politici si occupavano di far togliere dalle rubriche televisive “L’intervallo” e le pecore che pascolavano, che avrebbero rappresentato un territorio, a detta loro, rimasto indietro rispetto ad una modernità incarnata dalla corsa alla industrializzazione, alla cementificazione, alla rimozione del portato storico, culturale ed ambientale di pratiche antiche.

L’Appennino dei pastori doveva lasciare il posto alla corsa al consumo, dimenticare la saggia conservazione delle risorse, l’eterno ritornare sugli stessi luoghi della transumanza che aveva insegnato, per secoli, a non erodere il territorio che di stagione in stagione rappresenta il sostentamento di uomini e animali. Divorato da una monocoltura modernista, questo mondo rischia di scomparire, e con esso i suoi saperi, la sua economia, i suoi prodotti. La montagna si ritrova sempre più vuota, e la pianura, un tempo meta ambita, riscopre che senza l’aspra montagna non si vive: i dissesti trascinano a valle acqua e fango, i boschi bruciano, la biodiversità si riduce, le risorse si consumano e non si rigenerano. Il cambiamento climatico, figlio della stessa tendenza, inasprisce ulteriormente questa tendenza.

La storia stessa della pastorizia origina dalle più antiche scritture, così come la riflessione e il pensiero critico sono nati quando l’uomo ha potuto distogliere un po’ della sua fatica, di cui era intrisa la vita di chi coltivava i campi, nella contemplazione di quelle greggi che anche il poeta Leopardi evoca nel suo “Canto di un pastore errante”.

Haec nota et nobilis,

quod et pecuaria appellatur,

et multum homines locupletes

ob eam rem aut conductos

aut emptos habent saltus;

altera villatica,

quod humilis videtur.

(Varrone, “De rustica”, 37 a.C.)

 Le origini della transumanza (da trans e humus, attraverso la terra) vengono fatte risalire alla civiltà sannita e lo storico latino Varrone conferma che essa era ampiamente praticata in epoca romana repubblicana. Dopo un periodo di contrazione durante l’Alto Medioevo, la transumanza risorse ad opera dei Normanni e degli Svevi. Lo sviluppo definitivo della transumanza e la sua istituzionalizzazione avvennero per mano di Alfonso d’Aragona (1393-1458), il quale, avendo intuito quali grandi potenzialità economiche si celassero in questa pratica plurisecolare, decise di istituire nel 1447 la Regia Dogana della Mena delle Pecore, con sede prima a Lucera, quindi a Foggia. La Dogana fu concepita per riscuotere e preservare la ricchezza dello Stato aragonese tanto da rappresentare sin da subito la prima fonte di ricchezza per la Corona. Essendo spagnolo, Alfonso d’Aragona imitò l’organizzazione dell’Honrado Concejo de la Mesta, un’associazione iberica in cui gli allevatori spostavano ogni anno in Castiglia le pecore dell’Andalusia e dell’Estremadura, e viceversa. Il sovrano costrinse quindi tutti gli armentari abruzzesi che possedevano più di 20 pecore ad usare la superficie pascolativa pugliese, pagando un modesto canone di 2 ducati per ogni centinaio di pecore. Il sovrano sapeva bene che una delle difficoltà che tratteneva i montanari dallo scendere d’inverno al piano era rappresentata dall’insicurezza del tragitto, soggetto alle violenze dei briganti e alle angherie dei vari feudatari. Per proteggere ed incrementare l’industria armentaria, Alfonso nominò un funzionario catalano, Francisco Montluber, a capo unico della Dogana, dotato di ampissimi poteri: i perni su cui ruotò la macchina doganale furono infatti il foro privilegiato per i portatori d’interesse e il monopolio di tutte le aree pascolative.

La pastorizia transumante non ha soltanto condizionato il territorio, ma per millenni è stata la forma economica più importante. Non a caso pecunia, deriva da pecus, bestiame, quando l’economia si basava sulla pastorizia e sugli scambi commerciali, piuttosto che sul denaro ed il bronzo veniva contrassegnato con l’immagine della pecora. Il continuo movimento di uomini e animali ha dato origine, lungo i percorsi dei tratturi, prima ad aree di insediamento pastorale e poi alla nascita di paesi e città che con il tempo sarebbero diventati importanti centri economici. Quando pensiamo ai pastori, fino al XX secolo, forse pensiamo a persone che vivevano un po’ ai margini della società, privi di cultura, ma molti pastori, anche quelli più umili, avevano conoscenza, ad esempio, della letteratura cavalleresca, della letteratura epica, alcuni pastori sono diventati degli scrittori. I pastori sono anche i depositari di una cultura montana, una cultura spesso orale, loro conoscono le storie, conoscono i nomi dei luoghi ed hanno una conoscenza botanica, anche applicata, come nel caso della medicina veterinaria.

In questo complesso e articolato tema anche i cibi e le elaborazioni gastronomiche giocano un ruolo importante. Ogni zona infatti ha generato nel tempo numerose proposte che hanno tra loro, tuttavia, elementi in comune. La maggior parte di essi infatti è costituito da carne degli animali allevati, generalmente bollita o cotta alla brace; nel primo caso è possibile ricavare anche brodo e/o zuppe che svolgono un ruolo corroborante importantissimo. Anche la carne conservata, salata per la precisione, è fondamentale durante gli spostamenti per due ragioni facilmente intuibili: è l’unica fonte carnea disponibile, è facile da trasportare e conservare. Queste presenze sono documentate del resto anche dalla letteratura, un esempio significativo è costituito infatti dal “Don Chisciotte” di Cervantes, all’interno della quale i pastori con i loro alimenti trovano spesso spazio:

“Fu accolto con molta cordialità dai caprai, e Sancio, avendo, il meglio che poté, allogato Ronzinante e il suo somaro, trasse all’odore che emanavano certi tocchi di carne salata di capra che in un calderotto bollivano sul fuoco; e nonostante che avrebbe voluto allora allora vedere se erano al punto di essere passati dal calderotto allo stomaco, lasciò stare, poiché i caprai li levarono dal fuoco. Stendendo poi a terra certe pelli di pecora, apparecchiarono molto alla svelta la loro rustica menza e invitarono i due, dimostrando molto buon viso, a far parte di quel che c’era”.

(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia).

Ci sono poi, naturalmente, anche prodotti derivati dalla lavorazione del latte innanzitutto, e dalla carne degli animali macellati, merce di scambio con altri pastori o anche, naturalmente, di vendita e sostentamento personale. Diffusissime anche minestre e zuppe preparate con latte e patate, due materie prime normalmente presenti tra i pastori. Piatti semplici quindi che evidenziano la semplicità di vita, il duro lavoro ma anche il forte attaccamento al territorio.

Doveroso terminare con il canto dannunziano dedicato ai pastori:

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.

Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori

lascian gli stazzi e vanno verso il mare:

scendono all’Adriatico selvaggio

che verde è come i pascoli dei monti.

(G. d’Annunzio, “I pastori”, 1903)

Lettura consigliata: Parole nel vento, 2000diciassette edizioni. Silloge poetica di Vittorio Guerrera, filosofo, poeta e pastore di Cusano Mutri (BN).

Autore

Docente, scrittrice, autrice di opere teatrali, saggistiche, fondatrice della casa editrice 2000diciassette. Ha ricevuto svariati premi letterari. Nel 2012 edita il romanzo “Ai Templari il Settimo Libro” che pubblica con il gruppo Publiedi-Raieri-Panorama-Si di Giuseppe Angelica. Intanto inizia la stesura del romanzo “Le Padrone di Casa”. Nel 2014 entra a far parte di un progetto europeo che la vede impegnata con il teatro attraverso le opere “Hamida” rappresentata in Belgio e Francia; ancora nel 2016 la seconda opera drammaturgica “Kariclea” messa in scena a Viterbo, Firenze, Grecia, Spagna e Bruxelles.