• 16 Ottobre 2024

La stagione del raccoglimento ci promette tre mesi di ovattata riflessione. Naturalmente dipende da noi se interpretare l’inverno con indifferenza o partecipazione. Propendo per la seconda ipotesi, naturalmente. Non soltanto perché mi è più congeniale, ma per l’oggettivo clima di naturale quiete che in questi mesi si instaura anche se non tutti se ne accorgono. L’inverno ci ghermisce leggero per poi farsi crudele. Ma il freddo – ancorché  mite in certi periodi – che attanaglia la terra prepara l’attesa, la rinascita, la riapparizione sfolgorante dei colori. Ed è in questa prospettiva che lo si vive o, sarebbe meglio dire, lo si viveva almeno fino a quando questa stagione era riconoscibile dai segni sacrali e naturali. Oggi che tutto è stato snaturato, profanato, secolarizzato l’inverno è la stagione del trionfo dei consumi, delle settimane bianche o del caldo cercato a tutti i costi per assecondare una sorta di perversione psico-fisica. Esso non è più l’occasione per ricongiungersi con se stessi e scandagliare, almeno nel periodo natalizio, i recessi della propria anima al fine di situarvi, sia pure con ottime intenzioni che magari verranno disattese, promesse che dovrebbero contribuire alla maturazione di una vita interiormente più ricca. Lo si vive come una stagione qualsiasi, così come tutte le altre stagioni vengono vissute alla stessa maniera. Si è perso, in altri termini, il legame tra il tempo e l’esistenza. E la circostanza è tanto più vera per l’inverno a torto ritenuta una stagione di privazioni, ma non è così. 

Raccoglimento e attesa sono  i doni preziosi che possediamo senza saperlo. Il freddo li protegge, non li mortifica. Nel Grande Nord i mesi che sembrano non passare mai e soprattutto quelli in cui la luce non appare per sessanta giorni di seguito si coglie il significato di un’esperienza misteriosa che si confonde con il biancore circostante: è come se l’anima si fosse liberata in un universo posseduto dal nulla se non dal vento che batte forte come a sollecitare il riparo dalla materialità. E la preghiera, insieme con i ricordi, affiora spontanea passando lunghe ore davanti a un fuoco primitivo che non esclude riscaldamenti più sofisticati. Ad altre latitudini, per quanto meno intenso, il freddo non è un nemico, non induce alla tristezza. C’è semmai nel riparo che impone la ricerca gioiosa di un’intimità che si fa carne, passione, bellezza. Gli amori che nascono d’inverno deperiscono più difficilmente di quelli che fioriscono distrattamente d’estate, per esempio. Così come i pensieri che vagano nell’aria o si fermano sulla carta. Impossibile dire quanto c’è di ispirazione sacrale nei piccoli e misurati gesti che d’inverno si compiono.

Ho sempre avuto la sensazione, fin da piccolo, che ogni movimento fosse commisurato allo scopo. E mi sono portato appresso, fin sulle soglie dell’età grave, questo desiderio di fare poco e di immaginare molto nei mesi invernali. Per non disperdere quella interiorità che si affaccia nella conversazione riparata, nella lettura in lunghe ore di ozio, nell’ascolto della musica mentre piove, tira vento, la natura si piega all’ascolto del canto che le intemperie producono tra gli alberi che quietamente assecondano anche lo scatenarsi degli elementi. Insomma, si sta come rinserrati nella propria intimità accarezzandosi l’anima da proteggere di fronte alle pieghe tumultuose che la stagione può prendere. Si diventa più umani? È possibile. Tanto che l’inverno è la stagione della creatività per eccellenza, forse perché minori sono le sollecitazioni esterne che si abbattono sulle nostre attività. Non che in primavera, estate e autunno il cervello vada in letargo, naturalmente. Ma a tra la fine di dicembre e la fine di marzo sento che se le membra si muovono di meno, il cuore, l’anima, lo spirito e la mente sono in attività quasi frenetica. E tutto ciò che è destinato a durare, credo che venga quasi sempre partorito d’inverno. 

La creatività accoglie la sobrietà che è forse la caratteristica più evidente dell’inverno. Nell’orto spuntano verdure povere, che si cucinano poveramente e hanno il sapore dell’autenticità. Nelle cantine, mentre il vino appena riposto nelle botti dorme il sonno del giusto per svegliarsi a primavera, maturano i succulenti frutti raccolti alla fine dell’estate con il preciso scopo di assaporarli nel corso delle festività natalizie: il melone bianco d’inverno, i grappoli d’uva appesi ai muri, le sorbe arrossate dall’ultimo sole di settembre, i fichi lasciati essiccare ad agosto per gustarli quando si sarebbero potuti sposare con le noci, e così via. È un fascino antico tutto questo mescolio d’estate con l’inverno attraverso i doni della terra. Oggi non c’è un bambino che rimanga incantato da tale “miracolo” perché si è perduto il senso del tempo e, dunque, il profumo delle stagioni. 

Così come si è disperso il senso profondo del cuore dell’inverno: la celebrazione dell’evento più sacro. La Natività è stata strappata, lacerata, offesa. Le mille luci di città bugiarde l’hanno reinventata come pretesto per commercializzare qualsiasi cosa. Sullo sfondo della fatua ricchezza esibita con volgare sfarzo, resta tuttavia il sorriso di un Bambino venuto al mondo per ricordarci chi siamo. Ed è curioso che la sua apparizione sia coincisa con un evento che prima di lui i popoli occidentali festeggiavano come segno della rinascita che riprendeva: il Solstizio d’inverno. Davanti ai fuochi sacri s’accendono d’inverno le redenzioni sperate. Pochi le sanno riconoscere. Ma non per questo non vanno coltivate. Tanto più che l’inverno è anche il momento appropriato al racconto, alla trasmissione delle tradizioni, degli usi, dei costumi che il freddo, nonostante tutto, preserva. E così sarà a dispetto di chi vorrebbe che l’indistinto troneggiasse per tutto l’anno senza poter distinguere nelle realtà la vitale mutazione che vive dentro di noi e che dovremmo comunque onorare, per quanto possibile, in relazione con le stagioni che attraversano le nostre vite. D’inverno non c’è intemperie, per quanto forte, che possa spazzare un sentimento di prossimità che è fondamento dello spirito comunitario. Raccoglierlo vuol dire sentirci vicini a chi conosciamo e a chi non conosciamo, ai nuovi arrivati che del nostro inverno non sanno molto, ma che, come noi, sono alla ricerca di quel raccoglimento e di quell’attesa che umanamente non possono respingere neppure alle latitudini da cui provengono e dove chiamano inverno l’estate. 

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.