• 27 Luglio 2024
Note d'Autore

Ci sono luoghi che potremmo chiamare “poesia”, in quanto capaci di farci leggere con profondità la scrittura del territorio, che allargano il nostro sguardo e ci inducono a considerare l’insieme delle relazioni e delle emozioni, anche quelle più implicite. I territori fragili e quelli ai margini hanno questa attitudine: rendono possibili  riflessioni che si riverberano nel tempo e nello spazio.

 La ricerca del “luogo ideale” ha sempre avuto una dimensione sentimentale, autentica, perché intima e riflessiva, tipica della figura del flaneur: il passeggiatore svagato e a momenti curioso descritto da Rousseau, reso celebre nell’Ottocento da Charles Baudelaire e negli anni Cinquanta del Novecento da Pierpaolo Pasolini; colui che cammina per quartieri poveri e borghi, notando differenze di paesaggio, con lo sguardo del passeggiatore tranquillo ma attento ai dettagli dell’ambiente, all’incanto delle singole e “vecchie” geografie. 

Il borgo è rovina ma è anche castello, roccaforte; è materia d’abbandono, ma anche avamposto; è agricolo, campestre, ma è anche antropomorfizzato; è Gea ma è anche Cton. Ci sono luoghi privilegiati rispetto ad altri, luoghi così intimi e importanti che tendono a preservarsi, più o meno intatti, nella memoria e tra i bisogni di uomini e donne, e tanti di essi sono borghi. Tanti gli scrittori, poeti e filosofi che, sentendosi estranei nel proprio contesto d’origine, stretti in uno spazio giudicato angusto, o addirittura definendosi apolidi, senza nazionalità, né il minimo legame emotivo nei confronti di un paesaggio o di uno scorcio, si sono fatti adottare da un luogo prima cercato, consciamente o meno, e infine scelto come punto di arrivo fisico, o anche solo spirituale del proprio peregrinare. 

L’entroterra ancestrale, l’entroterra difficile e ostile, controverso e violento, ma anche genuino, sanguigno e meraviglioso assume una personalità, -come per Cesare Pavese-, le caratteristiche di un porto da cui salpare e in cui tornare e attraccare in ogni momento della vita. Il borgo è una dimensione in grado di fornire radici e ali.

Cesare Pavese, in “Paesi tuoi”, “La luna e i falò” e i “Racconti” ha più volte riproposto uno schema preciso: un protagonista, giovane o adulto, che sente improvvisa e insopprimibile l’esigenza di partire, per scoprire cosa l’orizzonte nasconda alla sua vista, oltre prati e colline. Forte il dualismo tra mito e realtà, tra borgo e sogno, lì dove il mito racchiude l’età antica del genere umano e quella infantile del singolo uomo, e dove la realtà è qualcosa di sfuggente e inafferrabile.

 Ignazio Silone, narratore delle campagne, delle zone rurali e dei loro abitanti, gente umile e ingenua continuamente soggiogata da un potere che, in maniera emblematica, ha sede in città, con minuziosa perizia di osservatore, ci suggerisce due elementi ben precisi che quella terra brulla e verde, selvatica e ospitale gli presenta: il freddo e il silenzio. L’immersione in un mondo mitico e ancestrale, che dissolve completamente ogni immaginario cittadino e globalizzato, rivendicando con slancio poetico la forza e la saggezza intrinseche alla natura. Claudia Durastanti, autrice de “La straniera”, incarna, nell’abbandono della terra d’origine, come per Calvino prima di lei, la voglia di partire, muoversi e spostarsi, alla ricerca di qualcosa che i luoghi d’origine (nel suo caso più di uno) non avevano saputo darle e che trova nelle periferie e nelle linee “campagnole” dell’abitare. 

Una riflessione non-nostalgica sui borghi è necessaria, così come un’analisi dell’emigrazione e del conseguente abbandono dei nostri piccoli paesi, cittadine e realtà spaziali ai margini, i “luoghi-soglia”, che sono il nostro qui e ora; ma questo non deve ridurre i luoghi di tal genere a simboli, metafore e metonimie dei tempi. Si tratta di luoghi e di persone, di storie, pratiche, sperimentazioni e memorie. Memorie di resistenza, di abbandono e ricostruzione. Esperienze di fuga, di lacrime, di addii, di legami ma anche pratiche di resilienza, di ritorno, di ostinazione, di confronto e cooperazione. Di tutto ciò ne abbiamo un disperato bisogno, non in un “qui” particolare, ma nel nostro ora, nel nostro Tempo. 

Il ripensare il borgo è quindi ripensare sé stessi in quanto cittadini irrimediabilmente “corrotti” dalla privazione del magico, del senso e del significato profondo che può nascere da un rapporto più autentico col paesaggio terrestre, da sempre unico vero grande “tutto” dell’esperienza umana. Pietre che parlano, frammenti di vita sobria come radici di passato e rami di futuro. Le emozioni disegnano il paesaggio della nostra vita spirituale e sociale. Come i sommovimenti geologici che un viaggiatore può scoprire in un paesaggio, dove in precedenza si poteva scorgere solo una superficie piatta, le emozioni lasciano un segno nelle nostre vite rendendole irregolari, incerte, imprevedibili. E allora forse dobbiamo proprio reimparare ad abitare l’abbandono, a riempirlo di occasioni di incontro, di nuova socialità. Per questo penso di poter dire che la cultura del “borgo” ha una certa sua “sacralità”; una sacralità che Franco Arminio, scrittore e paesologo, ha definito così bene come “disoccupata”.

Castelli, abbazie, borghi murati e paesaggi antropici rimasti intatti almeno fino al secondo dopoguerra, fornendo un’immagine dalle infinite sfaccettature dello sviluppo storico, culturale e sociale delle genti che fin dai più remoti periodi della preistoria hanno vissuto, costruito, commerciato, lasciato tracce che si sono in molti casi sovrapposte e combinate, dando luogo a sincretismi unici.

Guardo i massicci del Matese e del Taburno, che fendono il cielo; le pareti antiche che sfiorano il campanile, le vacche che si stendono a prendere il sole sull’erba umida di rugiada. I tetti ammassati di Pietraroia, nel Sannio, il silenzio, il “non luogo”, quello che tutti possono costruire nella propria anima. Vedo Pinuccio e Rosanna, scarponi e sogni, che salgono su per la “Leonessa” di Cerreto Sannita, trafitta dalle pale eoliche. Nessuno può capire quanta poesia c’è sotto quella ricerca, quel cammino, quella riscoperta. 

L’entroterra rappresenta, da sempre, una dimensione autentica e viscerale, fuori dal tempo e dal mondo: rappresenta, l’inconscio umano; rappresenta un “iperluogo”, la trasposizione esterna della parte più nascosta, primitiva e misteriosa dell’animo umano, quella che tiene conto della propria identità, della propria solitudine, ma anche dell’inevitabilità del relazionarsi con i suoi simili, in modo diretto, tangibile; rappresenta un memorabile creatore di sogni. 

Fermi davanti a una campagna, a un cielo chiaro, a un corso d’acqua, a un bosco, a un borgo, sorpresi di non esser più “io”, di cercar la parola che traduca tutto quanto fino ai fili dell’erba, fino al “sentore” del letame, fino al vuoto. Esistere in un “non luogo”, in un campo, in un cielo, nei sensi spalancati come bocche… a divorare l’oggetto.

Autore

Docente, scrittrice, autrice di opere teatrali, saggistiche, fondatrice della casa editrice 2000diciassette. Ha ricevuto svariati premi letterari. Nel 2012 edita il romanzo “Ai Templari il Settimo Libro” che pubblica con il gruppo Publiedi-Raieri-Panorama-Si di Giuseppe Angelica. Intanto inizia la stesura del romanzo “Le Padrone di Casa”. Nel 2014 entra a far parte di un progetto europeo che la vede impegnata con il teatro attraverso le opere “Hamida” rappresentata in Belgio e Francia; ancora nel 2016 la seconda opera drammaturgica “Kariclea” messa in scena a Viterbo, Firenze, Grecia, Spagna e Bruxelles.