“Per cinquanta o sessant’anni ci siamo cullati nell’illusione che finché avremo denaro avremo cibo. Ci siamo sbagliati. Se continueremo ad offendere la terra e il lavoro che ci consentono di nutrirci, le scorte alimentari diminuiranno e ci ritroveremo con un problema molto più grave del crollo di quest’economia di carta. Il Governo non sarà in grado di produrre cibo semplicemente regalando centinaia di miliardi di dollari alle società di agribusiness“.
Così parlò Wendell Berry. Era l’autunno del 2008. Da pochi mesi era divampata la più grande crisi economico-finanziaria moderna. Il mondo era in ginocchio. L’Occidente si sentiva perduto. Il visionario contadino-scrittore del Kentucky aveva formulato una diagnosi che gli gnomi dell’alta finanza e i loro manutengoli politici, arroccati negli impotenti Parlamenti e nelle tremebonde Cancellerie dell’Est e dell’Ovest, avrebbero ignorato pur di non ammettere che l’ “economia di carta” aveva inferto un colpo mortale alla Natura, ai diritti dei popoli, alla Terra Madre corrotta dall’avidità.
Nutrirsi, elementare e fisiologico bisogno umano, non è più un atto naturale, ma il prodotto della contraffazione del mercato alimentare che serve altri scopi a cominciare dal sostentamento della “finanziarizzazione” dell’economia e dall’incitamento all’abuso dell’inessenziale. E spinge nel ritenere che mangiare non sia semplicemente un “atto agricolo”, vale a dire il prodotto finale del raccolto secondo le regole del rispetto della terra. Berry, interrogandosi sul “piacere di mangiare” connesso alla natura dell’uomo è ormai svilito nelle varie forme che orridamente ci sommergono attraverso la televisione ed il web, osserva nel saggio Mangiare è un atto agricolo (Lindau): “Spesso, alla fine di una conferenza sul declino della vita rurale e dell’agricoltura in America, qualcuno dell’uditorio chiede: “Cosa può fare chi abita in città?” “Mangiare responsabilmente” rispondo di solito. Naturalmente cerco di spiegare cosa intendo con questa espressione, ma mi sembra sempre di non aver detto abbastanza. Adesso vorrei cercare di offrire una spiegazione più ampia. Comincio dall’affermazione che mangiare è un atto agricolo ed ecologico. Mangiare conclude il dramma annuale dell’economia alimentare che inizia con la semina e la nascita. Molti mangiatori non sanno più che questo è vero. Pensano all’alimentazione come produzione agricola, forse, ma non si considerano parte dell’agricoltura. Si considerano “consumatori”. Se pensano un po’ più a fondo, devono riconoscere di essere consumatori passivi. Comprano quello che vogliono, o quello che sono stati persuasi a volere, nei limiti di ciò che possono comprare. Pagano, per lo più senza protestare, il prezzo che viene chiesto. E in genere non sanno nulla degli argomenti fondamentali sulla qualità e il costo di produzione di ciò che gli viene venduto: quanto sia veramente fresco, quanto sia puro o pulito, o libero da pericolose sostanze chimiche, da che distanza arriva e quanto il trasporto ha aggiunto al costo, quanto la trasformazione industriale, l’imballaggio e la pubblicità incidano sul prezzo. Quando l’alimento è stato trasformato, manipolato o precotto, che effetti queste operazioni hanno avuto sulla sua qualità, valore nutritivo e sul prezzo?
Berry (5 agosto 1934), poco conosciuto in Italia, ma influente negli Stati Uniti dove è apprezzato come scrittore, poeta, ambientalista, nel volgere la sua attenzione alla questione del cibo e dell’agricoltura ha puntato decisamente sulle distorsioni della modernità a cui imputa la distruzione dello spirito comunitario. Le sue opere – alcune delle quali pubblicate in Italia da Lindau che ha meritoriamente proposto all’attenzione questo irregolare americano, amante di Firenze tra l’altro dove ha soggiornato per un anno circa – sono ad un tempo un atto d’accusa ed un’apologia appassionata degli elementi naturali della vita la cui decadenza provoca inevitabilmente la soppressione dell’ordine sovrumano dimensionato secondo il diritto naturale. All’età di ottantadue anni, oltre alla scrittura continua a dedicarsi fattivamente all’agricoltura mandando avanti la sua fattoria nel Kentucky presso la cui università si laureò ed insegnò per lungo tempo letteratura e scrittura creativa prima di approdare a quelle di New York e della California, fra il 1957 ed il 1965. Nel 1965 ritornò nel Kentucky stabilendosi nella fattoria dove la sua famiglia risiede dal 1800. Vi coltiva 125 acri seguendo metodi tradizionali e biologici. In tutti i suoi scritti Berry sottolinea la necessità di salvaguardare e conservare l’ambiente, l’agricoltura, la famiglia, le comunità tradizionali, l’armonia fra l’uomo e la natura. E’, la sua, una visione profondamente spirituale dell’esistenza che ha indotto il “New York Times” come “il profeta dell’America rurale”.
I romanzi di Berry sono esemplificazioni, letterariamente assai suggestive, della sua visione del mondo raccolta nei molti saggi. In particolare in Hanna Coulter che è l’ideale prosieguo di Jaber Crow e di Un posto al mondo, esempi tra i più riusciti di quella “letteratura del ritorno” al centro della quale l’uomo e la natura vivono in armonia.
L’attività letteraria non ha mai distolto Berry da quella saggistica. Pur vivendo appartato rispetto al mondo intellettuale americano, “vigila” sulle devastazioni della modernità cui contrappone il “ritorno alla terra” e allo spirito comunitario per scongiurare la catastrofe del Pianeta annunciata dal totalitarismo dell’economia finanziaria che ha fatto strame dell’ambiente e del corretto uso delle risorse naturali. Nell’ultima raccolta di scritti apparsa in Italia, sempre per Lindau, La strada dell’ignoranza, l’accento sul “comunitarismo” è molto più marcato.
Con modulazioni assai suggestive, Berry esprime una critica profonda, all’ “american way of life”, ed esplicita in questo vademecum di sopravvivenza possibile, una riflessione acuta e fuori dagli schemi su economia, immaginazione e conoscenza, ed incita a recuperare il cammino della conservazione dei valori primari e naturali al fine di rifondare un mondo che sta sprofondando.
«Dobbiamo renderci conto – scrive – che i tentativi sregolati del comunismo e del capitalismo industriali sono ugualmente falliti. Le pretese di produttività, redditività ed efficienza, di crescita, benessere economico, potere, meccanizzazione e automazione senza limiti, per un certo tempo possono arricchire e conferire autorità ai pochi, ma prima o poi ci distruggeranno tutti». Insomma, per Berry, i livelli di “vivibilità” di una comunità non si possono misurare con i valori del Pil o con i bilanci delle aziende. C’è dell’altro che fa parte del nostro codice genetico innestato su una corretta utilizzazione della natura, rispettandola e conservandola, per garantirci piaceri, desideri, longevità, libertà, autosufficienza. Una comunità in buona salute, dice Berry, non è soltanto “una comunità esclusivamente umana”, ma un insieme di esseri “in un determinato luogo, più il luogo stesso: suolo, acqua, aria, e tutte le famiglie e le tribù di creature non umane che ne fanno parte”. Per questo “gli obiettivi di produzione, profitto, efficienza, crescita economica e progresso tecnologico non implicano e in pratica non rispondono ad alcun criterio sociale o economico. Ma esiste un altro insieme di obiettivi che al contrario comportano dei criteri, e sono la libertà (quasi un sinonimo di autosufficienza individuale e locale), il piacere (ossia, la gioia di essere vivi) e la longevità o sostenibilità (che esprime il nostro desiderio di veder perdurare libertà e piacere). Tutte queste aspirazioni implicano il criterio del benessere. Alla fine , dipendono necessariamente dal benessere della natura: l’idea che libertà e piacere possano durare a lungo in un mondo malato è assurda”.
Berry aggiunge che quando parliamo di comunità dobbiamo riferirci ad un legame complesso non soltanto tra esseri umani ma tra questi e l’ambiente che li circonda. Una prospettiva di conservazione ecologica, se si vuole. Tanto antimoderna da essere addirittura proiettata nell’avvenire… Come il pensiero di questo americano che si permette di mettere in discussione l’ideologia americana, quella che sta corrodendo gli Stati Uniti e l’intero Occidente in un processo di regressione il cui esito davvero può essere la “fine della storia”.