Un “vecchio fusto” del giornalismo italiano, Alberto Giovannini, si spense il 28 ottobre 1984, un anniversario che ci siamo lasciati sfuggire, ma rimediamo con questo ricordo non lontano dal triste evento ispirato alla crisi della stampa, i cui dati recenti sono disastrosi, e a quanto lui stesso prevedeva circa l’agonia ella carta stampata. Al tempo era direttore del “Secolo d’Italia” si spense Alberto Giovannini,  che non poté onorarlo immediatamente perché era chiuso da tre mesi per ristrutturazione. Alla ripresa, pochi giorni dopo le esequie, Giorgio Almirante, tra gli altri, dedicò all’amico di una vita uno struggente articolo nel quale ammetteva di non essere assolutamente capace di commemorarlo “perché non sono capace di considerarti scomparso per sempre, perché non ti abbiamo perduto, perché questo giornale, questo foglio di carta che quando riportava il tuo editoriale assumeva una trasparenza spirituale e morale prima che politica, perché questo tuo giornale continua ad essere diretto da te”.

Ancora oggi, per chi lo ha conosciuto, ha collaborato con lui, lo ha ammirato e gli ha voluto bene, è difficile “commemorarlo”.

Quarantuno anni non sono bastati a cancellare il ricordo di Giovannini alla cui breve, ma intensa stagione al “Secolo d’Italia” è legata la crescita giornalistica, culturale e politica di tanti colleghi.

Oltretutto, di “commemorazione” in senso tecnico Giovannini non avrebbe voluto neppure sentir parlare, non foss’altro perché era schivo di natura, timido più di quanto non apparisse, estroverso soltanto davanti ad una macchina per scrivere sulla quale quotidianamente si esercitava per polemizzare ed avanzare proposte, ricordare e redarguire (talvolta anche ferocemente), intessere soprattutto un dialogo con i lettori che gli erano affezionati e che si legavano ai giornali che  dirigeva con un attaccamento fideistico che se  fosse vissuto oggi avrebbe certamente dato luogo ad un fenomeno che sarebbe stato indagato in tutte le sue pieghe.

Giovannini, invece, era politicamente emarginato per sua scelta. E pur riconoscendogli tutti, anche gli avversari, doti eccellenti di giornalista e di polemista, non ebbe la fortuna di poter usufruire di tribune altolocate, ma minoritarie per quanto prestigiose. Perfino quando morì non molti di coloro che lo avevano frequentato e stimato (ma sottovoce) ritennero di dedicargli una qualche attenzione. Erano i soliti meschini e voltagabbana che Giovannini non mancava di prendere di mira quando se ne presentava l’occasione.

Trasgressivo, coraggioso, intellettualmente onesto, Giovannini si portò addosso per tutta la vita la sua “romagnolità”, se così si può dire. E come tutti i romagnoli – ne ricordo uno solo a lui carissimo: Nicola Bombacci che lo tenne a battesimo – non gli difettavano l’ardore e la tenacia nel difendere una causa, o meglio nell’appassionarsi per le “cause perse”, le quali per lui “perse” non erano davvero dal momento che ne considerava la nobiltà non in base all’utilità o all’opportunità, ma all’ideale che racchiudevano. Un inattuale, in senso nietzscheano.

Una volta mi disse che non avrebbe fatto ciò in cui si era impegnato per oltre mezzo secolo se non avesse avuto il gusto di “pisciare controvento”. Fra le innumerevoli espressioni colorite che Giovannini adoperava per descrivere situazioni e stati d’animo, questa, riferita soprattutto agli anni delle sue direzioni giornalistiche, rifletteva straordinariamente il suo anticonformismo, il suo naturale disgusto per i faccendieri del potere, per gli arruffapopoli senza principi e privi di moralità, per tutti gli opportunisti ed i saltafossi, insomma, che gremivano e – ahinoi – gremiscono la scena pubblica.

Questo atteggiamento gli faceva riconoscere, con un fiuto invidiabile, gli uomini che vale la pena frequentare, tra gli amici e gli avversari, nella Repubblica e nella Monarchia, in democrazia e sotto la dittatura.

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