• 27 Luglio 2024
Note d'Autore

E’ uno spaccato di vita spietato, scritto da Verga, interessato alla nuova forma di schiavitù: quella per i beni materiali. Mazzarò, protagonista dell’omonima novella, lungi dall’essere un eroe, è vittima della sua stessa ricchezza materiale.  Il suo cuore è più che indurito, è come reificato, divenuto della stessa sostanza della roba. È proprio vero, come affermava il grande san Tommaso, che la vita dell’uomo consiste dell’affetto che maggiormente lo sostiene. Mazzarò non è triste, ma arrabbiato con gli altri e con la vita. Lui che non ha conosciuto altra legge che il possesso non ha nostalgia o rimpianto, non è cosciente di non aver vissuto e di non aver guardato in faccia la realtà. Manca in lui qualsiasi consapevolezza che la vita è domanda, ricerca e viaggio verso un destino. Verga, sempre più acuto nel descrivere con cupo pessimismo l’inesorabilità del destino umano e l’impotenza ultima delle azioni, descrive Mazzarò in tutta la sua feroce bramosia di possesso. L’uomo è dominato dall’ambizione di possedere sempre di più, animato dalla roba che è il fine della religione del lavoro. Perché faticare e rompersi la schiena se non per possedere un maggior numero di terreni o di beni? Se nel Ciclo dei vinti Verga demistifica l’idolo del progresso che sommerge personaggi appartenenti a differenti classi sociali, nella raccolta Novelle rusticane (1882) lo scrittore attacca l’idolo della roba e del possesso, una brama che attanaglia l’uomo, radicandosi addirittura nelle sue vene e divenendo la sua sola ragione di vivere.

Dal nulla economico da cui proveniva egli aveva «accumulato tutta quella roba» attraverso una sfrenata avarizia che si era manifestata persino nel funerale di sua madre, così semplificato da costargli – come ricordava – solo 12 tarì. L’avarizia è un vocabolo che è assonante col verbo «avere», anche se in realtà deriva dal verbo latino audere, «osare», e che ha generato anche l’aggettivo «avido». Un vizio insaziabile, come già indicava il Qohelet biblico: «Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro».

L’illusione, che ne è alla base, è quella di colmare il nostro incessante «desiderio» di infinito (non si dimentichi che questo vocabolo deriva dal latino de sideribus, «dalle stelle») attraverso realtà finite, le cose, vanamente moltiplicate e accumulate, nella speranza frustrata di bloccare la morte.

San Paolo in modo incisivo ha svelato la vera natura sacrilega di questo peccato, quando ai Colossesi scriveva che «l’avarizia insaziabile è idolatria». Il denaro o i beni concreti diventano – come per Mazzarò – l’unico valore assoluto a cui tutto sacrificare, è il vitello d’oro da adorare con le sue liturgie ed esigenze sacre. Molti ricorderanno la celebre formula dell’Eneide di Virgilio, l’auri sacra fames (III, 57), ove l’aggettivo sacra significa soprattutto «esecranda», perché è un falso «sacro».

Abilissimo è Verga nell’introdurre in medias res il lettore, quando la ricchezza di Mazzarò ha già preso forma e consistenza tanto che tutte le terre descritte sono di sua proprietà. Il lunghissimo e complesso periodo iniziale trasmette l’impressione di un’estensione vastissima e sterminata: «Il viandante che andava lungo il Biviere di lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò. — E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? — Di Mazzarò. —».

Scrive Verga: «Non beveva vino, non fumava, non usava tabacco […]. Non aveva il vizio del gioco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre». Vive come un asceta, ponendo sempre più in alto l’esito da raggiungere, i personaggi con cui confrontarsi: «Voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed essere meglio del re».

La gente lo invidia, senza sapere «quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera e come quella testa che era un brillante avesse lavorato  giorno e notte, meglio di una macina di mulino, per fare la roba». Quando Mazzarò si ammala e i medici gli comunicano che ha poco tempo da vivere, furioso ammazza «le sue anitre e i suoi tacchini», gridando: «Roba mia, vientene con me». Lui, che non è stato

mai cosciente del destino che attende ogni uomo, si sente tradito dalla vita che gli ha fatto pensare per qualche tempo di essere un vincitore, rivelandogli in fondo che è solo un vinto. Per questo cerca la vendetta nei confronti della sua stessa roba, pensando di poterla eliminare: ma la essa gli sopravvivrà.

La roba non è soltanto fatta di soldi, di ville, di gioielli, di società, ma anche di cariche, di poltrone, di ruoli, di legislature, di potere. Per la roba si lotta, ci si ammazza, ci si vende, ci si prostituisce, si perde la dignità, si giura eterna fedeltà e devozione a chi te ne ha concessa almeno un po’. La roba di Mazzarò, che Giovanni Verga descrive con incomparabile maestria, è la roba alla tua destra e alla tua sinistra, davanti e dietro di te, la roba che arriva fin dove arriva la vista dei tuoi occhi, la roba che vorresti portare con te ma non è possibile, perché sai che esiste il limite dell’esistenza, il corpo che un giorno esaurisce le sue energie e ti abbandona, smette di funzionare, di correre per te, per il tuo ego smisurato, per la tua voglia inesauribile di vita, così si dice, per il tuo divertimento, per la tua gioia, per la tua gloria. “Roba mia vientene con me”…

Ma gli umani, lo ha insegnato per decenni Jiddu Krishnamurti, non riescono a essere seri. Riescono a fare i forti, i potenti, gli onnipotenti, i buoni e i cattivi, a giocare con la vita e con la morte, ma a essere seri no, a guardare la realtà in faccia per quel che è e non per quella che vorrebbero fosse, no, non riescono…E alla fine si pentono, si commuovono, si disperano e soffrono perché, ineluttabilmente, devono lasciare: “La roba”.

Lettura consigliata: L’unto”, un romanzo di Diego C. de la Vega, edizioni 2000diciassette

Autore

Docente, scrittrice, autrice di opere teatrali, saggistiche, fondatrice della casa editrice 2000diciassette. Ha ricevuto svariati premi letterari. Nel 2012 edita il romanzo “Ai Templari il Settimo Libro” che pubblica con il gruppo Publiedi-Raieri-Panorama-Si di Giuseppe Angelica. Intanto inizia la stesura del romanzo “Le Padrone di Casa”. Nel 2014 entra a far parte di un progetto europeo che la vede impegnata con il teatro attraverso le opere “Hamida” rappresentata in Belgio e Francia; ancora nel 2016 la seconda opera drammaturgica “Kariclea” messa in scena a Viterbo, Firenze, Grecia, Spagna e Bruxelles.